Quattro metri di altezza per tre di larghezza: queste le dimensioni esatte del libro di Pierre Michon, Gli undici (in libreria per Adelphi nella perfetta traduzione di Giuseppe Girimonti Greco). Ma chi sono questi undici del titolo? Anzi, cosa sono? Gli undici è un dipinto, una tela piuttosto grande, il quadro più celebre del Louvre. Si deve a François-Élie Corentin, altrimenti noto come il Tiepolo del Terrore. Lo storico Jules Michelet, che avrebbe visto il dipinto, diceva che in confronto il Marat assassinato di David non è altro che una piccola e semplice tela caravaggesca. Gli undici invece è tutt’altro: è la rappresentazione della storia, anzi della «Storia in atto», scrive l’autore con la maiuscola. Riesce a incarnare la «presenza reale della Storia», perché mette in scena i suoi attori principali. Coloro che con le loro magnifiche e terribili gesta hanno scritto la sorte di un Paese. Una grande narrazione. È il tempo della Rivoluzione francese. È il tempo del Terrore. Restituiti in un quadro, a sua volta raccontato da una scrittura poderosa e incantevole nel quale la realtà raggiunge l’immemorabile del mito.

È ora di scoprire il quadro, di vederlo. Eccolo allora. Tutti gli undici, da sinistra a destra: Billaud, Carnot, Prieur, Prieur, Couthon, Robespierre, Collot, Barère, Lindet, Saint-Just, Saint-André. «I Commissari. Il Gran Comitato del Grande Terrore». Del pittore non sappiamo molto: lo si può vedere in una tela del Tiepolo, quando a vent’anni faceva il modello. Nel ritratto appeso a Würzburg, nel muro sud della Kaisersaal, che rappresenta il corteo di nozze di Federico Barbarossa. Eppure anche se non si sa molto di lui, il suo posto è fra gli immortali, fra quei pochissimi «pittori che, chissà perché, sono stati prescelti dalle masse, sono balzati nella leggenda mentre gli altri, pittori e nulla più, restavano a riva – loro sono più che pittori: Giotto, Leonardo, Rembrandt, Corentin, Goya, Van Gogh». Ha 63 anni quando, in una notte del 15 nevoso dell’anno Secondo (gennaio 1794), bussano alla sua porta. Tre uomini. Un sacco d’oro sul tavolo. Una commessa per un quadro. Da onorare secondo i dettami di una voce che per un istante sembra quella di Robespierre: «Sei capace di dipingere dèi ed eroi, cittadino pittore? È un’assemblea di eroi quella che ti chiediamo. Dipingili come dèi o come mostri, o anche come uomini, se te ne viene l’estro. Dipingi Il Grande Comitato dell’anno II. Il Comitato di salute pubblica. Fanne quello che vuoi: santi, tiranni, briganti, principi. Ma mettili tutti insieme, in una bella riunione di famiglia, come fratelli».

Corentin accetta. E li dipinge come in una cena, laica, senza alcun Cristo e senza Giuda. Non è il Terrore. Non ancora. È il tempo della dolcezza del vivere, quello in cui seguendo Tiepolo il Dio è un cane, come giurano i veneziani. Aspettando che la Storia giudichi e denunci gli undici fratelli. Aspettando che quel dipinto venga reclamato – faceva parte delle clausole: la prima, «il dipinto andrà eseguito nella massima segretezza, alla maniera di un cospiratore, senza parlarne con nessuno, e in segreto dovrà essere custodito fino al momento in cui non gli verrà richiesto». La seconda, invece, che «i robespierrots, Saint-Just, Couthon, Robespierre stesso, devono essere dipinti più visibilmente e centralmente, più magistralmente degli altri personaggi del Comitato, che dovranno apparire nel quadro come semplici comparse». Ecco dunque il potere, la politica. Il quadro servirà nel futuro: non sappiamo ancora se Robespierre sarà vincitore o vinto, ma in entrambi i casi il quadro sarà la rappresentazione della Storia. Se Robespierre prenderà definitivamente il potere, allora sarà esposto per salutare la sua grandezza, come prova della venerazione che aveva sempre avuto e magnificare il ruolo che ha giocato. Se invece sarà sconfitto, lo si esibirà per mostrare la sua tirannica ambizione, una prova del flagrante delitto del potere, la testimonianza della meschinità di Robespierre che l’aveva commissionato sottobanco e in gran segreto per esser idolatrato nei palazzi esecrabili dei tiranni. «Eh sì, signore, il più famoso quadro del mondo è stato commissionato dalla feccia dell’umanità con le peggiori intenzioni del mondo».

A questo punto poco importa se il quadro esiste veramente o no. Se Corentin figura nei manuali di storia dell’arte. Durante la lettura si vede il quadro. In queste pagine esiste davvero. Michon offre un libro virtuoso, ammirabile nella potenza della scrittura. Mescola finzione e realtà storica. Un romanzo che è allo stesso tempo una fantasia storica e documentaria, una meditazione sull’arte e il potere. Una riflessione sulla Storia, affascinante e tragica nel suo implacabile corso. Alla maniera dei classici, perché in fondo Michon ci conduce sulla soglia del mito. Ed è proprio qui che la narrazione letteraria diventa anche altro. Diventa fondazione, racconto di un evento e la possibilità di scrittura del politico. Perché in fondo è al politico che Michon s’interessa: intendeva aprire un nuovo spazio entro il quale è possibile il racconto della Rivoluzione e del Terrore. A suo modo, il libro è esso stesso un gesto politico: come gli undici, che sono esistiti davvero (eccome!), allo scrittore interessa porre la questione dell’uguaglianza, della fraternità.

E nella narrazione Michon ricorre alla mitologia del mondo moderno. Anche geografica. Michon ha impiegato più di 15 anni per concludere queste pagine. E le ha terminate a Nantes, il luogo dove Napoleone III si ritirò dopo aver raggiunto il potere. La città dove lo storico Michelet, nell’inverno del 1852, mise mano all’ultima versione del grande racconto epico e lirico che è la sua monumentale Storia della Rivoluzione francese. Proprio quel Michelet richiamato da Michon come testimone del quadro al quale avrebbe dedicato una decina di pagine della sua Storia – ma è inutile andarle a cercare perché non le si troverebbero. Michelet a Nantes scrisse il famoso libro sedicesimo, nel quale evocò il momento cruciale del Terrore. Sono le pagine più allucinate e visionarie. Michon gli rende omaggio, o forse lo deride, facendogli scrivere pagine che non ha scritto ma che avrebbe potuto scrivere, se il quadro fosse esistito.

Il risultato finale è una grande alchimia. Al lettore non interessa più sapere se il quadro è vero, perché qui è la scrittura a esser vera. Proprio come l’arte, che insieme al potere rimane uno dei suoi personalissimi miti sociali. Che, come ogni mito, deve esser raccontato. È quello che fa Michon, raccontare. E lo fa seguendo l’affermazione di Paul Nizan, secondo il quale ci sono scrittori che tendono a portare l’oggetto letterario alla temperatura di un Dio.

Pierre Michon, Gli undici, traduzione di Giuseppe Girimonti, Adelphi, 2018, pp. 134

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