Come avviene ormai da qualche tempo, anche quest’anno, approssimandosi il periodo dell’assegnazione del premio Nobel, al primo posto tra i favoriti per la vittoria viene indicato Haruki Murakami, lo scrittore giapponese al momento più celebre e amato al mondo. Vale la pena, dunque, dedicare qualche breve riflessione – ferma restando l’importanza del ‘fenomeno’ Murakami, oggetto di un culto mondiale insolito per un autore comunque di livello – agli aspetti più propriamente letterari dei suoi romanzi, scegliendo i quattro più significativi, uno per decade, nell’ambito di una produzione relativamente vasta (dodici romanzi, sei saggi, più numerosi racconti).
L’opera più celebre, e quella che è valsa a Murakami un enorme successo in patria e la definitiva affermazione internazionale, è senz’altro «Norwegian Wood» (Noruwei no Mori, 1987; il titolo, come spesso in Murakami ‘metatitolo’ derivato da un’opera reale o immaginaria presente all’interno del romanzo, è quello di una canzone dei Beatles). Romanzo generazionale, fortemente improntato a un lirismo affatto estraneo alle altre opere dell’autore – rispetto alle quali manca inoltre completamente, qui, la componente surreale –, è una storia di formazione e di educazione sentimentale ambientata negli anni Sessanta, nella quale il pozzo, figura centrale e ricorrente nell’immaginario murakamiano, è quello del disagio esistenziale, che si traduce in una sequenza di suicidi risultata talora spiazzante per il pubblico occidentale. L’opera, molto amata sia in Giappone sia in Occidente, ha suscitato anche molte riserve per quella che è parsa una deriva, per così dire, sentimentalistica: «Quello che provo per Naoko è un sentimento incredibilmente dolce, calmo e puro, mentre quello per Midori è di natura completamente diversa. È qualcosa che cammina, respira, pulsa, che mi scuote nel profondo. Io non so più che fare e sono terribilmente confuso. Non voglio assolutamente cercare di giustificarmi, ma io ho sempre cercato di vivere con sincerità, senza mentire. E mi sono sempre sforzato di non far soffrire nessuno. Perché allora sono andato a finire in questo labirinto?». Resta però il fatto che si tratta, al di là degli indubbi limiti, di un romanzo sincero, intenso, destinato a restare tra i libri forse non migliori, ma certamente più rappresentativi della narrativa giapponese degli anni Ottanta.
Di maggiore spessore «L’uccello che girava le viti del mondo» (Nejimaki-dori Kuronikuru, 1994-1995; il titolo originale, anche in questo caso un metatitolo, significa letteralmente «Cronache dell’uccello-giraviti»), forse il miglior romanzo di Murakami e l’opera nella quale trova espressione più compiuta la narrazione surreale – accostabile per certi aspetti, se si vuole, al cinema di David Lynch – che caratterizza gran parte della produzione della maturità, e nella quale il confine tra reale e immaginario, tra il mondo esterno e la psiche tende progressivamente a scomparire fino a una compenetrazione dei due diversi piani di esistenza. Romanzo ampio e tematicamente assai ricco, nel quale il pozzo è allo stesso tempo realtà concretamente fisica ed espressione della dimensione inconscia e spirituale, comprende anche vasti inserti ambientati durante la guerra in Manciuria, che si è tentati di considerare le parti in assoluto più felici dell’opera.
La vocazione lirica di Norwegian Wood e quella onirica di Nejimaki-dori Kuronikuru si fondono, e vengono insieme portate alle estreme conseguenze, in «Kafka sulla spiaggia» (Umibe no Kafuka, 2002; ancora un metatitolo, sebbene «Kafka» sia anche lo pseudonimo scelto dal protagonista): la storia, di nuovo, della formazione umana e sentimentale di un ragazzo, ma anche – indissolubilmente intrecciata ad essa – quella di un imprecisato sovvertimento dell’ordine cosmico cui è assolutamente necessario porre rimedio. Il romanzo mostra la piena maturità raggiunta da Murakami, con alcuni brani assai felici: «Col tempo la maggior parte delle cose finisce per essere dimenticata. Anche quella guerra terribile, e la tragedia irreparabile di tante persone, appartengono ormai a un passato lontano. Il vivere quotidiano occupa inesorabilmente i nostri pensieri, e molte cose importanti si eclissano dalla nostra coscienza, come vecchie stelle pietrificate. Ci sono troppe cose di cui dobbiamo occuparci ogni giorno, troppe cose nuove da imparare. Nuovi metodi, nuove nozioni, nuove tecniche, nuove parole... E tuttavia ci sono esperienze che, per quanto tempo possa passare e per quante cose possano accadere nel frattempo, non si riescono a dimenticare. Ricordi che non sbiadiscono. Eventi che rimangono dentro come pietre miliari. Per me l’incidente accaduto nella foresta è uno di questi». E notevole, soprattutto, è il rapporto tra il vecchio Nakata, che da piccolo ha perso la memoria ed è divenuto analfabeta a seguito dell’«incidente nella foresta», e il camionista Hoshino, che, incontratolo per caso, sceglie di seguirlo – si direbbe con spirito apostolico – nella sua missione apparentemente priva di logica e di senso. Ma nel complesso la fusione non convince, e lascia perplessi la volontà, come si diceva, di spingere al limite l’ispirazione surreale e fantastica, facendo venir meno, in questo modo, l’ambiguità del confine tra il vero e l’immaginato felicemente esplorata altrove.
Qualche cenno, infine, a 1Q84 (2009-2010; il gioco di parole del titolo – allusivo all’esistenza di una seconda realtà, caratterizzata da una serie di piccole differenze rispetto a quella che conosciamo – è basato sul fatto che in giapponese il numero «9» si pronuncia come la lettera «Q» in inglese), di cui deve ancora uscire, in Italia, la traduzione del terzo e ultimo volume. Atteso come il libro della definitiva consacrazione di Murakami (e coronato in Giappone da un imponente successo commerciale), è un’opera che in qualche modo sembra cercare tale consacrazione, proponendo una riflessione di ampio respiro sulla scrittura – uno dei due protagonisti è un giovane autore – e sulla società contemporanea – nella quale i «little people» hanno sostituito l’orwelliano «big brother» –, e riprendendo, quasi in una summa della sua narrativa, temi trattati in opere precedenti (e che potrebbero non dispiacere ai giurati del Nobel) quali il fanatismo delle sette religiose o la violenza sulle donne. Per esprimere una valutazione si dovrà attendere ovviamente l’uscita italiana della parte finale, ma l’opera – che pure si andrà probabilmente a collocare tra le migliori dell’autore – sembra risentire di un impianto narrativo forse troppo esplicito (per non dire didascalico), ed è comunque ben lontana dall’essere l’annunciato ‘capolavoro’ di Murakami.
Parlare dello stile di Haruki Murakami – uno stile, in contrasto con la materia spesso onirica, eminentemente denotativo, caratterizzato da un gusto un po’ di maniera per le descrizioni minute e analitiche – richiederebbe di affrontare la delicata questione, sollevata più volte anche di recente, della maggiore assimilabilità, da parte non soltanto del pubblico ma anche della critica internazionale, di quelle opere nelle quali la ricerca stilistica ed espressiva non pregiudica la possibilità di una persuasiva traduzione in altre lingue, con tutto quel che ne consegue (non escluse le riserve ultimamente espresse da Tim Parks sull’effettiva ‘competenza’ dei giurati svedesi nel giudicare «l’infinita varietà di opere appartenenti a una molteplicità di tradizioni diverse»). In ogni caso, per rispondere alla domanda formulata nel titolo, il massimo riconoscimento mondiale sembra prematuro: Murakami è senz’altro un grande, ma non (ancora) un sommo scrittore, e manca al momento, nella sua pur vasta bibliografia, un’opera che possa ambire ad essere accolta nel canone dei classici della letteratura mondiale.