“Il Corano, che chiamano la Parola Suprema, / Di quando in quando si legge, non di continua lettura; / Ma attorno all'orlo del nappo c'è sempre vivo un Versetto / Che di continuo, per ogni dove, leggono gli uomini”: torcendo il collo alla littera (ma esiste lettera, in poesia, che non desideri essere strangolata?) di questa quartina del Roba'iyyat di Khayyam, lo spirito dei versi sembra evocare, come opposizione alla vita parcellizzata che il mondo feriale sparge attorno all'essere umano, la rottura di quei confini che dall'individualità sono posti allo stesso tempo come condizione e limite della propria esistenza, lo stabilirsi di una continuità fluida e ininterrotta alla quale solo l'amore, l'esperienza erotica può condurre. Annullati i propri limiti, l'essere umano guarda stupefatto, attraverso la propria integrità disfatta e lacerata, quel baratro spaventoso nel quale l'ekstasis lo ha gettato, non più protetto da quella membrana di abitudini e convenzioni che ne costruivano l'identità sociale. Ma quello squarcio, il disfarsi del proprio derma, che cosa altro può essere se non una ferita, ovvero quel dolore la cui apertura non potrà fare altro che essere la garanzia di quella comunicazione ininterrotta, infinita, disperante che la perdita di sé nel rapporto erotico implica?

In una zona di indecidibilità fra memoir e romanzo, Sylvia di Leonard Michaels (Adelphi, traduzione di Vincenzo Vergiani) diviene per l'autore il necessario momento per evocare il fantasma di quella lacerazione che fu il rapporto con sua moglie, nel primo scorcio degli anni '60, quando il Greenwich Village a New York è attraversato dai fremiti più stimolanti e fervidi, un “contagio visionario”, come lo definisce Michaels, che avrebbe condotto, attraverso Allen Ginsberg e la musica di Dylan, alla controcultura. La passione, immediatamente sbocciata fra il narratore e Sylvia, diviene presto un inferno consumato fra le mura dell'appartamento di MacDougal Street, un inferno sospeso fra la follia di lei, sempre più manifesta e ossessiva, e quella felicità che talvolta, come un fiore solitario cresciuto sulla terra arida e proprio per questo ancora più prezioso, coglieva entrambi quando percepivano, fugacemente, “la fortuna di stare insieme”.

Attraverso la filigrana di una scrittura asciuttissima, perfetta per addentrarsi nei risvolti più intimi di una storia così difficile da raccontare, duttile a tal punto da sembrare modellata su quella di un Pascal, tanto è capace di penetrare, come le mani di un medico, nell'interiorità dell'uomo pur preservandone l'integrità, Sylvia lascia trasparire un esercizio di conoscenza la cui origine può essere individuata molto lontano, nell'irruzione di Alcibiade nel Simposio platonico, dove, all'esposizione del “bello in sé, puro, limpido, non mescolato e infetto da carni umane e da colori e da molte altre vanità morali” che Diotima trasmette a Socrate, egli contrappone un delirio coribantico che vede nell'individuo contingente non il primo gradino verso un sapere che lo supererà, lasciandolo svanire nell'irreale, bensì il proprio telos indiscutibile, dal quale sarà così impossibile stornare la sofferenza, che già Eschilo individuava (ton pathei mathos) amara radice dell'uomo.

I violenti movimenti sismici che dilaniano la vita di coppia dei protagonisti non sono accidentali, non sono forme graduali di redenzione, da lasciarsi alle spalle come fa il serpente con la propria pelle vecchia, che conducono ad una sfera dove il logos taccia, con tutti i suoi strascichi di realtà, in favore di una conoscenza perfettamente trasparente, bensì phronesis radicale, che di ogni ente non può che essere ricetto, in una forma radicale e profonda nella quale siano implicate tutte le contraddizioni e tensioni che la sublimazione meramente estetica, al contrario, non potrà mai realizzare senza cadere nell’orizzonte del kitsch e dell’aridità, sulla scorta di Dostoevskij e della risposta che serpeggia in una celebre pagina dei Karamazov: così come la coppia omosessuale di vicini di casa dei protagonisti, che tenta di annullare le urla di Sylvia e Leonard e di sublimare la propria vita affettiva con un muro di musica, la quale anziché apertura, ferita aperta, diviene chiusura gelosa e sterile.

Ma questo confronto col dolore, sebbene non trovi alcuna consolazione in un Paradiso, come direbbe Malaparte, più simile al pensionamento che ad un’esperienza mistica, non rimane tuttavia inchiodato alla sua mera fattualità; semmai, è proprio l’elisione di quella distanza abissale fra mito e realtà stabilita dal moderno che la scrittura di Michaels tenta di mettere in atto, ridando vita ad un mitologema inesorabilmente legato alle potenze oscure della terra, alle forze ctonie del sangue, delle Erinni, che solo un pensiero illuminato dal sereno distacco della ragione olimpica potrà considerare folle; un movimento che annulli così l’astrazione verso cui l’abitudine ci conduce per privilegiare l’esperienza della possessione, dell’uscita da sé, della furia accecante.

La tragica figura mitica che la coppia incarna si allontana così da qualsivoglia estetismo letterario, indicando con mano magra e sofferta un gorgo oscuro e vischioso che le parole tentano, in uno slancio irrefrenabile di paura, di coprire e cristallizzare in immagini rassicuranti, riconciliate e innocue.