La necessità di un passaggio dall’economia attuale a una più sostenibile dal punto di vista ambientale è ormai, almeno a livello teorico, da tutti riconosciuta. Perdurano però spinte contraddittorie, interessi di parte, timori anche legittimi che esso implicherebbe un costo altissimo dal punto di vista socioeconomico, e i decisori politici sono pertanto frenati dal compiere scelte più drasticamente coraggiose.

Recentemente un nuovo studio compiuto dalla Global Commission on the Economy and Climate (istituita dai governi di Regno Unito, Svezia, Indonesia, Norvegia, Corea del Sud, Colombia ed Etiopia), intitolato The new climate economy (settembre 2018), ha cercato di quantificare i vantaggi economici e sociali che deriverebbero dalla introduzione di più efficaci politiche di salvaguardia del clima.

La Commissione propone anzitutto una severa tassazione delle emissioni di CO2, che generi entrate fiscali di migliaia di miliardi di dollari all’anno, cioè circa quanto il PIL dell’intera India. Si suggerisce inoltre di rendere ovunque obbligatoria per le imprese la divulgazione della valutazione dell’impatto climatico.

Sul fronte degli investimenti, si prospettano interventi di bonifica di territori degradati, di fornitura universale di acqua potabile, nonché ovviamente di ricerca e sviluppo tecnologico, per ridurre la diffusione della plastica e assicurare un calo del 30% delle emissioni di CO2, affermando che, oltre a evitare lo spostamento di 140 milioni di profughi climatici, ne deriverebbero 700.000 morti premature per inquinamento in meno, 70 milioni di posti di lavoro in più e un incremento del PIL di 26.000 miliardi.

Questo studio fornisce così qualche più precisa indicazione ai governi per intraprendere con maggiore convinzione quella che ormai sembra essere l’unica strada possibile e ragionevole.

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