In questi giorni concitati abbondano i riferimenti alle epidemie del passato: soprattutto a quelle di peste, o meglio di ‘peste’, visto che per molti secoli il termine, o il suo equivalente in altre lingue, non definiva una malattia precisa. Esperienze sedimentate nei secoli e nei racconti, come nelle elaborazioni letterarie, ci restituiscono un’eco sinistra. La mancanza di rimedi farmacologici di efficacia scientificamente provata, cioè di cure (o di un vaccino) e la natura e la portata delle misure di prevenzione che tutto il mondo sta mettendo in atto – confinamenti, chiusure di confini e di città, isolamento degli infetti, anche fughe sconsiderate – ci riportano a situazioni che non pensavamo di poter vivere. Sembrerebbe paradossale consigliare la lettura o almeno un esame di testimonianze del passato, che possono invece essere un aiuto per distinguere, e quindi per capire meglio il nostro presente. Dovremmo infatti chiederci se la storia sia, come sembra in questi giorni, solo una trita ripetizione di eventi, o un magazzino per riferimenti più o meno corretti; o se non sia invece un ‘paese straniero’, come è stato definito da David Lowenthal: un luogo da visitare sapendo quanto è diverso dal nostro.

Nel 1656 in Italia si scatenò una delle molte epidemie di peste di ancien régime. Si trattò di peste bubbonica, malattia che oggi sappiamo essere trasmessa da un batterio, la Yersinia pestis. Le epidemie moderne sono state vittime di uno strano pregiudizio: si è sempre lodata l’energia con cui le autorità civili hanno preso provvedimenti, spesso estremi, per contenere il contagio e limitarne gli effetti, ma si sono liquidati con superficialità gli sforzi messi in campo dalla medicina del periodo per comprendere la natura delle malattie epidemiche. Se è corretto dire che la medicina galenico-ippocratica negava l’idea stessa del contagio, non è affatto vero che questo sia rimasto l’unico quadro di spiegazione. In un’età in cui si mettevano in questione le teorie ricevute dall’antichità, le spiegazioni offerte dai trattati di peste erano varie, audaci, interessantissime. Ma i trattati sulla peste, letti avidamente da chi poteva farlo, non rispondevano solo a un astratto bisogno di conoscenza: erano anche e prima di tutto una letteratura che offriva rassicurazione, «an effort to explain, an effort to control» (Paul Slack) la catastrofe privata, sociale ed economica rappresentata dall’epidemia.

La peste del 1656 infuriò a Napoli e altrove in Italia, ma fu tenuta sotto controllo a Roma per l’intervento di un cardinale, Girolamo Gastaldi, nominato da Alessandro VII Chigi commissario straordinario alla Sanità. Gastaldi fu autore (almeno nominale) di un trattato pubblicato molti anni dopo gli avvenimenti, il Tractatus de avertenda et profliganda peste politico-legalis, diventato famoso per la cura con cui descrive le misure draconiane adottate dall’amministrazione cittadina e dalla Curia per far fronte all’epidemia. Gastaldi credeva all’esistenza del contagio e agì di conseguenza, chiudendo con misure spietate, che arrivavano alla pena di morte e che durarono circa un anno, le case e i quartieri dove si presentavano i casi – prima di tutto il Ghetto. Ma fece soprattutto leva sulla rete, controllabile ed entro certi limiti ‘pubblica’, dei molti ospedali e istituzioni di cura della città.

Al centro della narrazione sono i luoghi dove si esercitò il controllo sanitario: innanzitutto i lazzaretti, in particolare quello dell’Isola Tiberina, ma anche quelli per gli stranieri; e poi gli edifici per la disinfezione delle poste e il lavaggio dei panni, i luoghi di ricovero dei ‘sospetti’, i convalescenziari. Le sue misure non piacquero a molti medici: il loro malanimo derivava anche dalla severità con la quale furono applicate le regole che impedirono la libera circolazione e quindi l’attività di molti di loro. Leggere oggi il testo di Gastaldi, un in-folio poderoso e ricco di immagini, impressiona per l’enfasi politica, a tratti propagandistica, con cui si descrive un successo terapeutico ottenuto a prezzo di gravissimi sacrifici imposti alla popolazione, ma che fece la fortuna del cardinale (e del suo papa). Il governo della peste non è questione solo medica: è anche, e forse soprattutto, questione politica.

Giuseppe Balestra era invece un chirurgo, e benché la sua professione fosse da sempre subordinata a quella del medico, faceva parte di un’aristocrazia di curanti, quella dei chirurghi ospedalieri, che ha rappresentato la punta avanzata della pratica medica nella Roma del ‘lungo Seicento’, aprendo attraverso precise cognizioni anatomiche e anatomo-patologiche, cognizioni di chimica e farmacia, a sviluppi scientifici e terapeutici innovativi. Il suo Gli Accidenti più Gravi del mal contagioso osservati nel Lazzaretto all’Isola [Tiberina], che dirigeva, scritto in italiano quasi ‘sul campo’, presenta il punto di vista opposto e complementare a quello di Gastaldi: quello di chi è ogni giorno costretto a confrontarsi con la realtà immediata e tangibile della malattia, con l’impotenza terapeutica e la morte di tanti curanti, con il tentativo di governare la malattia nei corpi dei pazienti. La testimonianza di Balestra non è quella di un osservatore indifferente: come lui stesso ricorda, è guarito dopo aver contratto la malattia, di cui invece è morto un suo figlio diciottenne, che lo veniva a trovare ogni giorno in ospedale (per apprendere l’arte della chirurgia?) e che non gli è stato possibile salvare: «doppo poche hore senza poterli dare un minimo aiuto nelle mie braccia morì». La lettura del breve testo di Balestra ci restituisce un quadro drammatico e vivo della realtà di un lazzaretto moderno, e può essere un antidoto salutare alla tentazione di attualizzare senza le dovute cautele ed esperienze, pratiche e tragedie che per molti versi sono lontanissime dalla nostra.

Fonti e Bibliografia per approfondire

Fonti

Girolamo Gastaldi, Tractatus de avertenda et profliganda peste politico-legalis, Bologna, Manolessi, 1684

Bibliografia

Paul Slack_, The Impact of Plague in Tudor and Stuart England_, London and Boston, Routledge & Kegan Paul, 1985

Alessandro Pastore, Crimine e giustizia in tempo di peste nell’Europa moderna, Roma-Bari, Laterza, 1991

David Lowenthal, The past is a foreign country – revisited, Cambridge University Press, 2015

Immagine: L’Isola Tiberina e il fiume Tevere visti da ponte Garibaldi, Roma. Crediti: Estam / Shutterstock.com

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