«__Une vapeur, une goutte d’eau suffit pour le tuer»: basta un vapore, una goccia d’acqua per distruggere il corpo umano. Il frammento forse più celebre dei Pensieri, mette il lettore odierno, con solenne energia, dinanzi alla realtà senza scampo della miseria del corpo. È perturbante, nel passo di Pascal, l’indicazione precisa dell’insidia, irrilevante e fatale, annidata in una nebbiolina, che a distanza di secoli ci sembra di riconoscere nella attualità dello schianto antropologico che l’umanità, a tutte le latitudini, sta sperimentando. L’effetto culturale dell’evento storico della pandemia si va rivelando, nella dimensione infinita dei discorsi e delle rappresentazioni, almeno duplice. Da una parte si tende ad una lettura retroattiva di tutto il passato, della storia e geografia della malattia mortale, alla ricerca di una continuità, che situi il mai-visto in una sequenza, e di un significato che le guerre, i massacri, le epidemie hanno già introdotto nei processi evolutivi della mente. Ad esempio, il «corpo morto in grandi masse» (E. Canetti), è un fatto ben presente nell’immaginario, come memoria storica, documento visivo, testimonianza scritta. L’effetto di shock è dato dalla compresenza sincronica del fatto e dell’immagine; mentre fino a ieri la cronaca contemporanea di conflitti e disastri veniva recepita – spesso naturalmente e ingenuamente – come spectaculum, notizia alienata nella immagine: il libro di G. Débord è del 1967. La civiltà dei media ha corteggiato l’Apocalisse disseminata ma, previo uno scollamento, come l’altrove della dimensione spettacolare, scalzando così il privilegio grandioso dell’uomo pascaliano, il quale «sa di morire».

«La libertà è un respiro». Rispetto alla riflessione storicistica che rimane uno dei tratti principali e confortanti dell’umanesimo, ognora ricostruttivo di concetti e valori («la malattia appartiene alla storia», aveva ricordato Le Goff), risulta molto più esteso, d’altra parte, il territorio dei discorsi sulla discontinuità che la pandemia fa registrare. Il tema introdotto da Pascal concerne oggi, in misura particolare, il corpo e il rapporto mutevole fra corpo e coscienza e fra comunità dei corpi e coscienza collettiva. «Nulla sarà più come prima», la formula tante volte evocata per prendere atto di ciò che si riteneva incalcolabile col vecchio metro di giudizio, e prefigurare ricominciamenti o inizializzazioni, sembra pienamente attagliarsi alla nuova situazione, per il carico di sorprendenti problemi da risolvere, di pratiche inedite da impiantare, di modelli di vita da immaginare, concernenti appunto i corpi, la loro cura e organizzazione nello spazio. Lungo la faglia antropologica che si è prodotta, si installa il mutamento vero, che va inteso e governato, perché si tratta di un processo che, anche quando il virus sarà sconfitto, continuerà, in modi e tempi non prevedibili: è un processo, bisogna aggiungere, iniziato molti decenni fa, in un itinerario che ha origini lontane, in un errore dell’intelligenza e in una colpa morale. Ci sono stati filosofi-moralisti, come Roger Caillois e Hans Jonas, i quali in maniere differenti ma omogenee hanno affermato, contro la terribile distrazione dell’uomo moderno, l’unitarietà genetica e pre-istorica della vita, la connessione profonda tra il corpo umano ed ogni forma vivente, persino – è il caso di Caillois – con le pietre. Una società senza empatia, sosteneva Caillois, murata nei suoi simboli e nelle sue allucinazioni, ha, letteralmente, dilapidato il senso. Su questa medesima linea minoritaria del pensiero novecentesco si è mossa con costanza e tenacia persino ossessiva, una protagonista della letteratura europea, Anna Maria Ortese. La Ortese ha saputo infatti illustrare nei romanzi e nelle pagine saggistiche la colpa grave di cui si è macchiato l’uomo, nel disprezzare la Natura e il Corpo Celeste, cioè la vita del pianeta, la «bella famiglia d’erbe e d’animali» evocata da Foscolo, e di cui egli, parte cosciente, aveva la «responsabilità». La libertà è un respiro – scriveva profeticamente la scrittrice – ma tutto il mondo respira ed ha diritto al respiro. E concludeva:

Una coscienza decapitata, ecco la nostra coscienza «umana», oggi. Il Momento è tutto! Il Corpo (privato) è il suo altare. Si dimentica che non esiste un Momento senza tutti gli altri Momenti, un corpo senza tutti gli altri corpi – compresi la Tigre e l’Uccello – compreso il corpo celeste della Terra. Manchiamo dunque di memoria storica, ma più ancora manchiamo di memoria biologica (Corpo Celeste).

«Regardant par mon hublot si je ne suis pas seul»: in una delle più belle liriche, scritte in francese, di Samuel Beckett, – il poeta e narratore e drammaturgo che ha fatto della compassione e della solitudine le due insegne della condizione umana –, si manifesta l’interrogazione del soggetto al mondo, circa la necessità irrinunciabile della relazione con l’altro. Vale la pena ascoltarlo:

Que ferais-je sans ce monde sans visage sans questions

où être ne dure qu’un instant où chaque instant

verse dans le vide dans l’oubli d’avoir été

sans cette onde où à la fin

corps et ombre ensemble s’engloutissent

Com’è accaduto, allora, che il corpo, disconnesso dall’habitat naturale – assunto come accessorio estetico, «paesaggio», e non come struttura portante del mondo – alla fine del secolo scorso sia ricomparso anzi in immagine ancora più volatile, nella connessione totalizzante del WEB? Proiezione di un IO irretito e reticolare, virtuale e social, la vita reale si svuota, sostituita dalle ombre della second life destinata all’inesistenza tranne che come merce. Si comprende bene che il rapporto fra umanesimo e tecnologia abbia costituito presto, negli ambiti della ricerca avanzata, la questione epistemologica più urgente, da seguire con tutti gli strumenti possibili, per ricondurre alla centralità dell’umano la fuga irresistibile della progressione digitale. Questa appariva fondata in se stessa, in quello che si può definire l’imperativo tecnologico. Ma ecco – anche questo è accaduto nella stagione covidiana – che dinanzi al soqquadro globale provocato dal contagio, dinanzi alle mortali peripezie del corpo, il digitale ha offerto invece soluzioni, diventando, da ideologia, mezzo, cooperazione essenziale, e conferendo in siffatto processo un significato organico, cioè necessario, all’idea di presenza, e alla relazione presenza-assenza, vicino-remoto, di fatto rovesciata, restituita ai bisogni reali delle comunità. Sotto i nostri occhi si sta verificando uno di quegli scarti singolari della Storia che gli antichi lettori di Hegel avrebbero riconosciuto come una astuzia della ragione e addebitato al principio, misterioso e puntuale, di una dialettica sempre in atto, infaticabile, legge immanente di quella realtà «senza nocciolo né corteccia che si dà tutta di un getto», secondo la formula goethiana, cara ad Hegel come a Croce. Si vuole dire che il ricorso a tutte le forme di incontro in remoto, la de-fisicizzazione della presenza che risponde alla necessità della distanza fra i corpi, rappresentano, lo sappiamo, non solo un formidabile esperimento di massa psico-sociologico ma anche una esperienza conoscitiva non inerte, non di rimessa, e invece straordinariamente operativa. Si consideri ad esempio il versante della comunicazione didattica, che configura in modo evidente ed istituzionale il rapporto fra le generazioni. Ebbene, è agevole misurare la portata, forse irreversibile, della nuova modalità digitale e valutarne le caratteristiche. Intanto, nella subitanea adozione e pratica del medium on-line, il soggetto ha convogliato la memoria del corpo in presenza. Se l’off-line garantisce dunque l’on-line, la comunicazione in remoto come espressione reattiva ed esigente della «volontà di contatto», ha rivelato a sua volta gli automatismi, nel mondo di prima, di una prossemica di grado zero, perché non percepita. Varrebbe la pena adottare l’affascinante ragionamento di Giorgio Agamben (La comunità che viene, 1990), sulla relazione fra potenza ed atto a proposito della rivoluzione pianistica operata da Glenn Gould, come capacità ulteriore di non-non-suonare, cioè di assumere nell’atto del suono anche la propria impossibilità. E si potrebbe, con qualche audacia di argomenti, suggerire per analogia che l’essere-presenti-insieme, nelle lunghe giornate dinanzi all’oblò dello schermo, in verità includa ed assuma anche il proprio contrario, ovvero l’assenza che vi andiamo sperimentando. È superfluo ricordare che noi europei siamo il prodotto di una civiltà letteraria segnata, da Petrarca a Proust, dalla energia costruttiva della memoria. Il vuoto diventa quindi un pieno, dal momento che la comunità a venire commemora ed evoca, nella distanza dei corpi, un valore drammatico e già carico di futuro: proponiamo di definirlo, con formula dalla apparenza paradossale, come non-non-presenza. Del resto, non sa di paradosso e di impossibile tanta parte della vita che oggi ci sta intorno?

Crediti immagine: Foto di Randy Rodriguez da Pixabay

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