La Terra al tempo del Covid-19 ha la febbre alta. La prima pandemia nell’era dell’Antropocene, il primo evento iconico vissuto da vecchie e nuove generazioni di tutto il mondo, la più grave crisi socioeconomica dal secondo dopoguerra che sta interessando indistintamente quello che Marshall McLuhan definiva il «villaggio globale». Mai come ora il genere umano è legato da uno stesso destino. Il tempo che stiamo vivendo non si narrerà solo studiando i media digitali, molto pop e oggi essenziali per continuare a galleggiare in una vita di reclusione ‒ gli instant book, le video-dirette, gli aperitivi su Facebook, le foto nostalgiche di Instagram, gli incontri su Skype, Zoom o Meet ‒, ma continueranno ad avere un ruolo preponderante i documenti tradizionali: le curve degli studi epidemiologici, le piramidi della popolazione dei demografici, la carta stampata, i documenti ministeriali, gli audiovisivi e, naturalmente, su tutti, la fotografia.

Di questa catastrofe abbiamo davanti agli occhi immagini che sono già sulle scrivanie delle case editrici di tutto il mondo per essere inserite in manuali scolastici e libri di storia. Le metropoli deserte, da New York a Dubai; i mezzi militari in colonna, a Bergamo, che si apprestano a trasportare le bare oltre regione; gli ospedali spagnoli stracolmi di persone accasciate al suolo; i droni coreani e cinesi che controllano la popolazione; l’esodo biblico da Nuova Delhi; il papa, che in una sera livida di fine marzo, cammina da solo in una piazza San Pietro deserta, sotto una pioggia placida e un silenzio cosmico, per celebrare il rito della benedizione eucaristica urbi et orbi. Quell’immagine planetaria, diventata immediatamente patrimonio collettivo di miliardi di persone, ci riappacifica col tempo della nostra esistenza, scombussola il concetto di fede degli atei indefessi, fa tremare le convinzioni. Il papa pop, l’ultima autorità religiosa e politica conservatasi all’incedere dei millenni, l’unico statista globale, tuona dalla città eterna. Le statue di Gian Lorenzo Bernini dall’alto scrutano via della Conciliazione, guardano il mondo, fissano la Storia. Il «tempo della cronaca», a cui eravamo abituati fino ai mesi scorsi, termina quella sera, Roma torna ad essere Caput Mundi, l’Italia diventa il faro dell’umanità e della speranza per una notte.

Il 27 marzo 2020 abbiamo preso consapevolezza di esser entrati già da un mese circa nel «tempo della storia», lo stesso tempo vissuto dalla crocerossina Sita Camperio nell’ospedale da campo n. 75 di Sagrado, a Gorizia, nel 1917, o dal giovane Lino Barini, figlio di socialisti, quella sera in cui sua madre è andata a recuperarlo nel collegio di Faenza perché iniziava la Seconda guerra mondiale, lo stesso identico tempo vissuto da papa Clemente VI e Giovanni Boccaccio, quando la peste nera del 1348 cambiò l’immagine dell’Occidente provocando la morte di un terzo della popolazione europea, o da Pelagio II e Gregorio Magno durante la peste del 590 d.C.

La storia ci è piombata addosso come un macigno, e, dopo esser stati anestetizzati per decenni dalla «cronaca», quindi dal benessere futile, dallo spreco bulimico di territorio e bellezze naturali, dal successo effimero di maschere che ricordano il teatro dell’assurdo di Ionesco o di influencer usciti dal Dialogo della moda e della morte delle Operette morali di Leopardi, ora gran parte della popolazione italiana non possiede gli strumenti emotivi per compiere un’operazione di razionalizzazione e comprensione dell’hic et nunc. Quando pensiamo al «tempo della Storia», sembra fin troppo scontato riprendere in mano i capolavori di Manzoni, Boccaccio o Camus, anche per gli abitanti della più grande Pianura industrializzata d’Europa, abituati da secoli a sezionare il tempo in base alle calamità naturali, al numero delle alluvioni, alle morti di malaria. E difatti un po’ lo è, ma c’è un però. La società dei consumi prima, quella globalizzata poi, nel giro di pochi decenni hanno fatto tabula rasa del passato, abbandonandosi all’eterno presente e diventando impermeabili al tempo. L’homo zanzarigeno padano, palustre e sciamano, si è trasformato in pochi anni in homo vacuus, apolide e sradicato, e la liquidità delle relazioni ha reso invisibili i ruderi abbandonati delle strade provinciali delle anime delle nostre campagne, immobili nel deserto vallivo come vecchi Tiresia, un po’ custodi del tempo, un po’ indovini. La società contadina, invece, era porosa, attaccata ai riti comunitari, alle sfortune della terra, alla progressione lenta del tempo della vita, alle piccole conquiste e ai grandi drammi. A tal proposito è utile rileggere un estratto di un capolavoro indimenticabile della nostra letteratura, Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli, che andrebbe recuperato per riavvicinarsi alla comprensione del senso del tempo dell’umanità.

«[I mugnai] Sapevano, ricordarono di quegli anni, tanto per dire: le nevicate dell’88, mai più viste né prima né dopo; le replicate paure del colera, apparso già nell’85, e chiamato dalla gente sospettosa «malattia dei poveretti»; il male, che parve nuovo e inaudito, dell’influenza, che infierì nel ’90 e nel ’92, e allora non si chiamava febbre spagnola, ma catarro russo; il ciclone della Polesella, a cui San Michele secondo sfuggì per miracolo, che salì dal fiume il 19 luglio  del ’92 e devastò quel paese e le campagne, e troncò come fuscelli un famoso viale di pioppi sulla strada di Ro, e fu gridato vendetta divina, perché in una chiesa sconsacrata della Polesella, la sera prima, era stata rappresentata una sconcia farsa contro i preti: e la tromba vi si avventò, la scoperchiò, ruppe e sbrecciò le mura massicce, si portò via i profani istrumenti dell’orchestra che aveva suonato nella farsa; e poi nel municipio fece altrettanto, del tetto e dei mobili e dei libri, che parve vendetta, questa, contro le tasse […]».

Quell’Ottocento affrescato da Bacchelli, che rivive per certi aspetti nella disperazione degli abitanti del Delta Padano di Florestano Vancini, fatto di raccolti andati a male, messe, rapporti promiscui, mortalità infantile, ci restituisce il significato dell’inettitudine della vita di fronte alla imprevedibilità della natura. Davanti alla pandemia, oggi, ci troviamo smarriti, angosciati, spaventati, senza più riferimenti né religiosi né laici, perché da troppi anni abbiamo deciso di vivere senza il passato. Ora capiamo, invece, citando Serge Gruzinski, che del passato abbiamo estremamente bisogno. Toccherà agli italiani del nuovo millennio navigare in acque inesplorate, scoprire sentimenti vecchi, visioni ataviche, lette solamente sui libri di quando si andava a scuola. Al momento limitiamoci a constatare il grande ritorno del «tempo della Storia», scandito in tutte le città del Bel Paese, da Trento a Palermo, dal rintocco delle campane delle chiese, come nel Medioevo e nell’Età moderna, e iniziamo a dare una fisionomia a questa data per iniziare a costruire la nuova Italia che sorgerà dalle difficoltà postpandemia.

* Regista

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