Dal 2010 ogni 18 luglio, giorno del suo compleanno, si celebra il Mandela day: un modo per ricordare e onorare il grande contributo dato da quest’uomo eccezionale alla storia dei diritti civili, al suo Paese e all’umanità intera; un’occasione per riflettere su cosa resta della sua eredità spirituale e insieme una ‘chiamata all’azione’, un invito a raccogliere il testimone, a compiere ognuno nel proprio piccolo, nella propria realtà, quanto è possibile per rendere il mondo un posto migliore.

Una ricorrenza che assume una particolare rilevanza quest’anno, in cui si celebra il centenario della sua nascita, che avvenne infatti il 18 luglio del 1918. Il suo vero nome, prima che un’insegnante a scuola gli attribuisse quello di Nelson, era Rolihlahla, “portatore di guai, attaccabrighe”, e certo – nomen omen – come è stato notato da più parti, Mandela, premio Nobel per la pace nel 1993, fu uomo di pace e di riconciliazione, ma non di pace a tutti i costi e al prezzo dell’abdicazione di valori per lui imprescindibili.

Il suo attivismo nell’African national congress, la sua lotta contro il regime profondamente ingiusto, disumano e anacronistico dell’apartheid gli costarono 27 anni di carcere, che affrontò con tenacia e con dignità. Al processo che si concluse nel 1964 con la condanna all’ergastolo, pronunciò un famoso discorso di tre ore che racchiudeva tutto il suo pensiero, le sue ragioni, i suoi obiettivi, denunciando ancora una volta e con forza l’inaccettabilità della white supremacy, concludendo con queste parole: «Ho lottato contro il predominio dei bianchi e contro il predominio dei neri. Ho coltivato l’ideale di una società democratica e libera nella quale tutti potessero vivere uniti in armonia e con pari opportunità. È un ideale per il quale spero di poter vivere e che spero di ottenere. Ma se necessario, è un ideale per il quale sono pronto a morire». Quando gli offrirono la possibilità di uscire di prigione a patto che inducesse l’African national congress a rinunciare alla violenza, rifiutò di trattare («Solo gli individui liberi possono negoziare. I prigionieri non sono in grado di trattare»).

Con l’avvento di Frederik de Klerk, le riforme, la sua liberazione nel 1990 e poi la sua elezione a presidente del Sudafrica iniziò una straordinaria fase della sua vita in cui riuscì nell’impresa apparentemente impossibile di guidare la transizione dall’apartheid a un regime democratico – nonostante i limiti dell’operazione che ancora pesano sulla realtà sudafricana – senza indulgere al rancore e alla vendetta, che pure avrebbero avuto di che nutrirsi. Con pragmatismo e coerenza scelse di non alimentare l’odio, con la consapevolezza che avrebbe solo generato ulteriore odio; attraverso la creazione di un organismo di alto valore simbolico, la Truth and reconciliation commission, che diede voce a chi aveva subito ingiustizia e offrì nel contempo possibilità di riscatto e perdono, consentì al Paese di andare oltre senza dimenticare. Una strategia che forse ha ancora molto da insegnare rispetto ai conflitti che ancora dilaniano l’epoca presente.

Crediti immagine: da Maureen Keating [Public domain], attraverso Wikimedia Commons

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