L’incipit di Tra le infinite cose, esordio e già bestseller di Julia Pierpont, è come uno scivolo di metallo. Tutto si proietta in modo eccitante verso il suolo, l’aria tra i capelli, l’espressione scompigliata, incredula. Quando si appoggiano i piedi a terra, quando ci si alza, rimane persistente la sensazione della discesa, il fatto che sarà difficile dimenticarla. È questo il punto: la si dimenticherà o no? Il tradimento svelato (anzi, messo a nudo) di un padre porterà la famiglia a disgregarsi
Un giorno, una mattina a New York, Upper West Side, una scatola viene consegnata nelle mani di una undicenne da un ignaro portiere. È indirizzata alla madre, ma la carta è così seducente che la bambina non resiste alla tentazione di aprirla. Dentro ci sono decine di fogli stampati: riportano le conversazioni intime – audaci, sconce, pornografiche– intercorse tra la giovane donna che l’ha spedita e il padre di Katherine Shanley, l’acerba undicenne che chiusa in camera leggerà tuttoriga per riga, piena di sconcerto e curiosità. I fogli passeranno presto tra le mani di Simon, quindici anni, il fratello maggiore, e infine verranno consegnati alla madre. I piedi ora sono a terra, lo scivolo è finito: sì, perché la madre sapeva, magari non così nello specifico, ma sapeva, e già aveva deciso perdonare il marito, giacché l’esterno - in qualche modo sinuoso e inaspettato - aveva reso più solido l’interno. (Lo sa lei, lo sa il marito Jack: “La ragazza era stata il mezzo che gli aveva permesso di essere un uomo migliore a casa”). Ma, d’un tratto, il solo fatto che i figli sappiano a loro volta cambia l’opinione che Deb ha dell’accaduto. I figli ci ridisegnano, ci fanno uguali e diversi da quelli che siamo, a volte migliori - lontani da qualsiasi compromesso, lontani dai taciti accordi che tengono insieme i matrimoni, ci fanno sempre e comunque più puri, dai contorni più netti- e cambiano la percezione che abbiamo di noi stessi. Una madre è un corpo unico e multiplo, non potrà mai più essere un’autarchia, le sue azioni hanno sempre un riflesso, il rimando di un’eco che i figli sono sempre pronti a ricordarle. “Lei era la vittima, certo, ma di fronte ai figli aveva capito immediatamente cos’altro sarebbe diventata, ossia una porzione di colpa, e aveva cominciato a far caso al proprio respiro.” 
Julia Pierpont ha ventinove anni, ma è come se ne avesse novanta, senza che questo comprometta mai la freschezza della sua prosa, l’agilità dei dialoghi, la polifonia alla quale attinge. Ha il talento di una pittrice che coglie nelle immagini un senso sospeso, l’essenzialità fondante nascosta dietro la confusione della superficie: “Pioveva il giorno in cui Katherine prese l’aereo dalla California per andare a recuperare le sue cose. Simon la aspettava sulla Settantaduesima, sotto il frastagliato riparo di condizionatori spenti. Veniva verso di lui dalla parte ovest della strada, ogni tanto saltellando per evitare pozzanghere reali e immaginarie. Un ambulante gridava ‘_Ooo_mbrelli _ooo_mbrelli _ooo_mbrelli’ vicino a una bancarella di pashmine e accessori per telefono coperti da un telo di plastica”. La Pierpont ricorda Lily Briscoe di Gita al faro, la pittrice attenta a ogni singola, centripeta pennellata. E il riferimento alla Woolf non è casuale. Pierpont ha una dote rara: come un sismografo coglie le emozioni, anche le più minute, ce le mostra senza mai nominarle attraverso frasi che lasciano sempre sulla soglia di qualcosa (“… il che era come guardare da un’estremità di una cannuccia pieghevole: mica facile”; “I fiocchi di neve somigliavano a scheletri di qualcos’altro”, “Le cose brutte non si rompono”), le mostra attraverso azioni, movimenti, espressioni di personaggi tanto diversi - anziani in cerca di tranquillità, adolescenti in fase di sperimentazione, adulti dimidiati dalle contraddizioni – descritti in capitoli brevi e cesellatissimi, in uno scambio continuo a tratti straniante che ci impedisce di affezionarci all’uno invece che all’altro.
Deb Shanley è magra e muscolosa, si porta addosso l’inconsapevolezza seduttiva che hanno i corpi atletici tutti “nerbo e tonica eleganza”, compatti e proiettati verso uno scopo preciso; cammina coi piedi divaricati. Fa l’insegnante di danza, un tempo è stata una promettente ballerina, e come chi ha ballato tutta la vita “possiede una tolleranza al dolore fuori dal comune”. È qualcuno che ha fatto una scelta tanto tempo fa, ha scelto di avere dei figli, di non potersi mai più concedere la felicità senza provare un timore latente. Soprattutto ha scelto di essere moglie (“Un tempo era Jack a renderla felice. Aveva ventisei anni quando lo aveva conosciuto, una giovane ventiseienne. Dovevi scegliere tra danzare e vivere, e fino a quel momento lei non aveva vissuto”), e ora tentenna, è una ballerina senza equilibrio. Si perde nei labirinti d’ipotesi che l’autrice costruisce per lei affastellando condizionali, gli uni sugli altri.
Jack è il traditore e l’artista di discreto successo. Forse un artista è sempre un traditore, uno che tradisce la vita, la usa per farne qualcosa di diverso, più alto, e in questo gioco si perde. Lui sta tutto nelle frasi che sussurra, nella calma dei gesti che lo fanno simile al figlio Simon; sembra un bambino, è spesso descritto così (un bambino quasi magico, con un suo nucleo di ludica purezza, uno a cui una farfalla monarca gli si posa addosso, “ormeggiata con delicatezza estrema al primo bottone della sua camicia”). Durante la sua ultima performance (una casa fatta esplodere sotto gli occhi degli spettatori, una casa che potrebbe essere ovunque, israeliana come palestinese, o altro ancora) qualcosa va storto, una donna rimane ferita. Ma il fulcro di Jack non è tanto l’essere esplosivo, piuttosto è racchiuso in un oggetto usato per allestire la scena, un peluche ormai smembrato e senza un occhio, Tigro, un regalo che tanti anni prima aveva fatto al figlio Simon e che Deb trova per terra, tra le macerie. Qualcosa che lei non saprebbe in alcun modo riparare.
Kay (Katherine) e Simon sono un ritratto attento di ragazzini alienati, seguono il solco di Holden Caulfield, del teenager protagonista di Un giorno questo dolore ti sarà utile di Peter Cameron, di Theo Decker nel Cardellino di Donna Tartt. Sono un misto perfetto di fragilità e forza, di consapevolezza e inesperienza. Il mondo adulto irrompe nella purezza dei bambini, un po’ come in quel delicatissimo film di Miranda July, Me and you and everyone we know. E forse Tra le infinite cose è la storia di un intermezzo (“Pensavamo di vivere un intermezzo, dopo questo e prima di quest’altro, e invece è stato l’intermezzo a durare”), un intermezzo non solo temporale ma anche spaziale, una navigazione in un territorio ibrido, quello dove la purezza incontra il mondo, e dove il mondo vorrebbe ancora tornare alla purezza. Kay ossessionata dalla fan fiction “Seinfeld” scrive episodi amatoriali in cui rientrano le conversazioni audaci del padre con l’amante. Simon, durante la vacanza in Rhode Island, s’innamorerà di una ragazza poco più grande e s’inoltrerà nel territorio delle prime esperienze cercando di mantenersi candido, diverso da suo padre.
La sensazione è quella di seguire personaggi che galleggiano in un tempo di mezzo, che si disperdono tra le onde, riavvicinandosi e di nuovo allontanandosi. Fatta eccezione per la seconda e quarta parte (intitolate entrambe Quell’anno e gli anni che seguirono) che accelerano mostrandoci flaubertianamente il futuro, il libro procede ipnotico e cadenzato. Tanto minuzioso da mimare da vicino quello che accade tutti giorni intorno a noi. Che potrebbe accadere persino a noi. Riconsegnandoci alla fine un senso di pienezza.

Julia Pierpont, Tra le infinite cose, Mondadori, pp.285
Julia Pierpont sarà ospite alla Ventesima edizione del Festival di Mantova (7-11 settembre 2016)