Le leggi correnti dell’economia hanno un solo obiettivo generale: la crescita. Se la crescita degli indici economici si arresta, gli economisti si allarmano per la stagnazione. Se la tendenza positiva si inverte, e gli indici decrescono, entriamo nella tragedia della recessione. La crescita del capitale economico è l’unica misura della salute di un’economia.

I movimenti ambientalisti propongono da tempo una visione alternativa, basata sui risultati di un’altra eco-scienza, parallela all’economia: l’ecologia. L’eco-nomia tratta del capitale economico, l’eco-logia tratta del capitale naturale. L’etimologia c’entra poco, in quanto eco- sta per casa, mentre -nomia e -logia stanno rispettivamente per regole e per studio. L’economia studia le regole della casa, l’ecologia studia la casa. Solo che per gli economisti la casa siamo noi, mentre per gli ecologi la casa è il pianeta.

In conseguenza di questo equivoco semantico, le due eco-scienze hanno avuto sviluppi paralleli, con scarsissime intersezioni, anche se le due hanno iniziato dallo stesso punto. Continuando il paragone geometrico, si tratta di due percorsi intellettuali divergenti, più che paralleli. Il punto di origine di entrambe, per le scienze moderne, è l’economista Thomas Malthus, ispiratore del primo ecologo teorico, Charles Darwin, che addirittura usò il termine “economia della natura” per etichettare quel che Ernst Haeckel in seguito chiamò “ecologia” (Boero 2015).

Per moltissimo tempo, da allora sino ad oggi, la necessità di continua crescita del capitale economico ha prevalso indiscussa, incurante delle conseguenze per il capitale naturale. I paradigmi economici prevalgono su ogni altra modalità di condurre la nostra vita. Gli ecologi, in base alle teorie di Malthus, Darwin e persino di Marx (che si ispirò moltissimo a Darwin) hanno tutti spiegato che la crescita infinita è impossibile all’interno di sistemi finiti, ammonendo dell’esistenza di limiti alla crescita (Meadows et al. 1972), ma invano.

L’ignoranza è la semplice ragione del mancato riguardo per la natura negli studi economici. Non si insegna ecologia nei corsi di economia e lo studio dell’ambiente è considerato estraneo alle necessità formative di un economista, in quanto si ritiene che l’ambiente non influenzi i sistemi economici e che questi non influenzino l’ambiente. Se gli economisti non studiano ecologia, ovviamente sono ignoranti in questa disciplina: ne ignorano le fondamenta teoriche e pratiche e quel poco che sanno deriva da studi estemporanei.

Negli ultimi decenni, tuttavia, persino i non-ecologi hanno iniziato a comprendere che le nostre attività hanno influenze negative su alcune specie, portandole persino all’estinzione, e sono iniziate le preoccupazioni per la sopravvivenza delle specie, con azioni mirate alla conservazione della natura. La biodiversità è diventata una parola popolare con la Convenzione di Rio de Janeiro sulla diversità biologica (1992), seguita da una serie di altre convenzioni che sempre più sottolineano l’importanza della Natura e il nostro impatto su di essa.

Cercando compromessi

Sostenibilità è la parola magica che libera le nostre coscienze, assieme a parole come “verde” e “blu”, per non parlare di “bio”. Queste parole sono spesso associate alla parola “crescita”, intesa come crescita del capitale economico che deve essere verde, oppure blu o, ancora meglio, sostenibile. Nonostante i tentativi per definire cosa significhi sostenibilità (Thiede et al. 2016, per esempio), l’obiettivo di quasi tutti i piani governativi continua ad essere la crescita, intesa come crescita economica. Se la protezione della natura rappresenta un ostacolo alla crescita economica, invariabilmente prevale la visione economica. Si riconoscono in qualche modo i costi ambientali, ma questi sono sacrificati in nome della crescita dei posti di lavoro e della produzione. In molti casi i costi ambientali sono considerati esternalità e sono accuratamente tenuti all’esterno di analisi costi-benefici.

Il significato di sostenibilità è semplice e non ambiguo: la crescita del capitale economico non può avere come conseguenza l’erosione del capitale naturale. La valutazione dello stato del capitale naturale, e delle conseguenze delle nostre azioni sulla sua integrità, tuttavia, è possibile solo se consideriamo alcune leggi ecologiche di base. Queste leggi non solo mancano dai corsi di economia ma anche da ogni altro percorso di istruzione, con l’esclusione di quelli che studiano proprio la natura. Le leggi della natura, quindi, non sono parte del bagaglio culturale della popolazione. La loro conoscenza è però un pre-requisito per comprendere pienamente cosa significhi sostenibilità.

Le leggi della natura (vivente)

Le leggi della fisica sono universali, sono valide in qualsiasi parte dell’universo. La vita è conosciuta solo sul pianeta Terra e rappresenta una singolarità, per quel che ne sappiamo. Le leggi della fisica sono valide anche sul nostro pianeta dove, tuttavia, la materia è organizzata anche in forma vivente e, in queste circostanze, sono anche altre leggi ad entrare in azione.

Gli ecosistemi del pianeta Terra mobilizzano una porzione di materia bene o male finita, limitata alla superficie emersa del pianeta e al volume dell’oceano globale. Questa porzione di materia cambia continuamente il suo stato da non vivente a vivente, e viceversa, attraverso un processo di sintesi basato su energia luminosa (fotosintesi) o chimica (chemiosintesi) espletato da piante, protisti fotosintetici (le alghe unicellulari) e alcuni procarioti (organismi privi di nucleo, come i batteri). Questi organismi sono autotrofi (in grado di formare sostanza organica complessa a partire da materia più semplice, inorganica). La vita ha avuto origine tre-quattro miliardi di anni fa, per generazione spontanea. Non siamo in grado di riprodurre quell’evento, ma il fatto che tutti gli esseri viventi condividano lo stesso linguaggio chimico (basato su interazioni tra DNA e RNA) e che il materiale genetico di esseri semplici come i batteri possa funzionare persino negli umani, dimostra grande compatibilità, suggerendo una singola origine comune per tutti gli esseri viventi. Darwin la chiamò discendenza comune.

Il primo organismo, l’antenato comune a tutte le forme viventi, era certamente un produttore primario, probabilmente chemiosintetico e privo di nucleo. I produttori primari, o autotrofi, sono ancora alla base del funzionamento degli ecosistemi.

La condizione vivente, però, è transitoria e la materia invariabilmente torna alla condizione non vivente. Batteri e funghi, i decompositori, degradano la materia quando questa perde la condizione vivente, riducendone la complessità alle componenti di base (spesso etichettate come “nutrienti”). Gli organismi fotosintetici, a loro volta, assemblano i nutrienti e ridanno vita alla materia. I decompositori sono eterotrofi e basano la propria esistenza sul consumo di materia vivente, prodotta da altri.

Ancora oggi esseri unicellulari (alghe microscopiche e batteri), soprattutto in mare, svolgono il ruolo di produttori primari autotrofi e decompositori eterotrofi mobilizzando grandissime quantità di materia che si alterna tra vivente e non vivente, rendendo possibile il funzionamento degli ecosistemi planetari.

In seguito, l’evoluzione della vita portò ad altri organismi eterotrofi, oltre ai decompositori: gli animali (i metazoi) e alcuni protisti (i protozoi) sono predatori che ingoiano le prede. Non possono dar vita alla materia semplice, ma possono usare la materia vivente prodotta da altri organismi, sia viva che morta. Noi mangiamo animali morti (ad esempio una bistecca) ma la materia di cui sono fatti è ancora organizzata come materia vivente. Lo stesso vale per la materia che prendiamo dalle piante. Gli organismi eterotrofi (umani inclusi) possono assimilare la materia che ingeriscono solo se nel loro apparato digerente sono presenti, e agiscono, decompositori simbionti come i batteri.

Gli umani, in quanto animali, hanno il ruolo ecologico di consumatori. La nostra posizione nelle reti trofiche è ampia, perché siamo onnivori: possiamo nutrirci sia di piante sia di animali.

Una legge della natura potrebbe essere chiamata la legge del pareggio di bilancio: ciò che viene consumato non può essere più di quel che viene prodotto. Questa dovrebbe essere anche una regola economica: il pagamento dei debiti (l’eccesso di consumo rispetto alla produzione) può essere posticipato ma, alla fine, i debiti vanno pagati.

Un’altra legge della natura potrebbe essere chiamata la legge della crescita: tutti gli esseri viventi tendono ad aumentare di numero. La riproduzione è l’impulso basilare di tutta la materia organizzata nello stato di vivente (umani inclusi). Se i rappresentanti di una specie non si riproducono, la specie si estingue. Quando il numero degli individui aumenta, però, ulteriori riproduzioni portano alla crescita esponenziale delle dimensioni della popolazione.

Questo porta alla legge del limite: la crescita delle dimensioni di una popolazione di qualsiasi specie non può essere infinita. Il limite alla crescita si chiama capacità portante: la quantità massima della massa di una specie (la massa degli individui che la rappresentano) che un dato ecosistema può sostenere. Per gli organismi autotrofi questa massa è condizionata da nutrienti, spazio, luce e dalla pressione degli erbivori. Per gli organismi eterotrofi i limiti sono dettati dalla disponibilità di cibo, prima di tutto in termini di disponibilità di produttori primari.

Le dimensioni delle popolazioni sono regolate dalla legge dei livelli trofici: i produttori primari non possono sostenere la crescita di una massa di produttori secondari e terziari (quelli che chiamiamo erbivori e carnivori) che superi la massa dei produttori stessi. Di solito, ad ogni passaggio di livello trofico, ad esempio da quel che viene prodotto a chi lo consuma, si ha una perdita di circa il 90% della massa vivente coinvolta. Questa bassa efficienza può essere migliorata, il tasso di rinnovamento dei produttori primari può essere molto rapido, ma i limiti della crescita sono comunque ineludibili, in quanto la massa di materia che può diventare viva è limitata.

Le leggi naturali sono elastiche. L’evoluzione le può modificare, e persino i limiti possono essere superati. Noi abbiamo evoluto l’agricoltura quando, da cacciatori e raccoglitori, il nostro peso ecologico superò la capacità portante degli ecosistemi. Invece di attendere che la natura producesse ciò di cui abbiamo bisogno, l’abbiamo forzata per ottenere da lei quel che vogliamo e, in questo modo, il nostro numero è aumentato esponenzialmente: la capacità portante della nostra specie è cambiata.

L’evoluzione obbedisce anche alla legge della rincorsa: se una specie “migliora” le proprie prestazioni nello sfruttare altre specie, allora anche queste specie devono “migliorare”, altrimenti saranno in grave disagio.

L’evoluzione, in altri termini, è una corsa agli armamenti tra specie che giocano diversi ruoli, con una rincorsa verso miglioramenti che saranno sempre temporanei, in quanto l’evoluzione di un tratto favorevole per una specie innesca l’evoluzione di altri tratti in specie che con essa hanno relazioni. Le specie che non cambiano secondo questi principi sono a rischio, in quanto non riescono a stare al passo con i cambiamenti di tutte le altre specie. La vita funziona come una reazione a catena di cambiamenti e non ci possiamo attendere il proverbiale “equilibrio”, la stabilità. L’evoluzione è la norma e, anche se le funzioni della vita sono praticamente invariabili, e quindi stabili, la struttura della vita, espressa dalle specie che mobilizzano la materia vivente, cambia a ritmo molto sostenuto. Darwin usò un concetto chiave per spiegarlo: la lotta per l’esistenza (Boero, 2015).

Queste “leggi” non sono predittive, sono esplicative. Dicono “cosa” succede (e spiegano “perché”), ma non ci permettono di predire “quando” succederà. Possiamo star certi che la crescita infinita non è possibile e che, prima o poi, ogni crescita è destinata a fermarsi, ma non è possibile sapere con precisione quando l’interruzione avverrà.Immagine 0

In guerra con la natura

Abbiamo evoluto la cultura e la tecnologia quando ancora eravamo cacciatori e raccoglitori. Abbiamo inventato attrezzi che hanno incrementato il nostro potenziale offensivo in modo troppo rapido per permettere ad altre specie di adattarvisi, come previsto dalla legge della rincorsa. Abbiamo vinto la corsa agli armamenti e abbiamo portato le nostre prede all’estinzione o, comunque, a tali diminuzioni delle loro popolazioni da non permetterci più di trarre da esse né i beni né i servizi di cui abbiamo bisogno.

Di solito, quando una specie evolve in modo troppo rapido e sbilancia i rapporti con le altre specie, la diminuzione delle risorse, collegata all’efficienza nell’estrarle, porta a carestie e i numeri dei suoi rappresentanti diminuiscono: la legge del limite. Il tasso di consumo è superiore al tasso di produzione e gli ecosistemi non possono sostenere un eccesso di consumatori: la legge dei livelli trofici. La diminuzione della pressione sulle prede che deriva dalla diminuzione dei predatori permette che le popolazioni delle prede si ricostituiscano, e la corsa agli armamenti può ricominciare, come previsto dalla legge della rincorsa.

Tuttavia, quando portammo le nostre prede all’estinzione il nostro numero non diminuì. Rispondemmo alla carestia inventando l’agricoltura, un modo per estrarre risorse dall’ambiente una volta che caccia e raccolta non furono più sufficienti a soddisfare i nostri bisogni. Le pratiche agricole, e in particolar modo quelle intensive praticate oggi, mirano ad eradicare tutte le forme viventi (piante e animali) e a focalizzarsi sulla produzione di una specie soltanto: quella che risponde ai nostri bisogni. Con gli erbicidi uccidiamo le piante che competono con le specie coltivate, con gli insetticidi uccidiamo i loro parassiti e predatori. Il risultato è la semplificazione della biodiversità e la trasformazione radicale degli habitat naturali.

Queste pratiche sono ineludibili, oggi, dato che il nostro numero aumenta continuamente. Con la medicina, inoltre, abbiamo rimosso molte cause di morte, e le nostre vite sono sempre più lunghe, almeno nei cosiddetti Paesi più avanzati. Numeri crescenti di individui a vita sempre più lunga, con la sovrapposizione delle generazioni, esercitano pressioni insopportabili sugli ecosistemi planetari.

Inoltre, i nostri livelli trofici stanno crescendo. Invece di nutrirsi di piante, numeri sempre crescenti di umani si avvalgono di cibo di origine animale. Invece di coltivare piante e mangiarle, noi coltiviamo piante con cui nutriamo gli animali che mangiamo. Si tratta di una pratica a bassissima efficienza, come abbiamo visto prima, a causa delle perdite nei vari passaggi da un nodo all’altro della rete trofica. Più nodi ci sono, maggiore è lo spreco: dobbiamo nutrirci prevalentemente alla base delle reti trofiche, come spiega la legge dei livelli trofici.

In sovrappiù, le regole economiche richiedono una crescita continua del capitale economico, e questo si ottiene anche con pressioni psicologiche verso il consumo di quantità crescenti di beni, incluso il cibo. Il risultato di questa pressione è l’obesità che affligge i Paesi più ricchi: si ingerisce più cibo del necessario! E, come se l’agricoltura non bastasse, gli umani hanno anche inventato nuovi modi di produrre beni e servizi utilizzando i combustibili fossili e sostanze chimiche tossiche. La rivoluzione industriale ha fornito enormi vantaggi nel breve termine, ma questi, nel lungo termine, sono pagati con il deterioramento del capitale naturale. La crescita della popolazione umana, sostenuta da una crescente efficienza nel modo di estrarre risorse dalla natura e di sconfiggere le malattie, sta deteriorando gli ecosistemi globali.

In questo caso non è solo la lotta di una specie contro altre specie competitrici, ma la lotta di una specie (Homo sapiens) contro il resto della natura. Il tasso di evoluzione biologica del resto della natura, però, è sfasato rispetto al tasso della nostra evoluzione tecnologica: abbiamo cominciato a correre troppo forte, apparentemente, e pare che la natura non riesca a rincorrerci, come prevedrebbe la legge della rincorsa.

Quando una risorsa diventa rara (ad esempio una preda) il predatore dovrebbe diminuire di numero a causa dell’insufficienza della risorsa a sostenere la sua popolazione. Ma se l’efficienza del predatore aumenta, la sua pressione sulla popolazione della preda la potrebbe portare all’estinzione. Questo è quello che avviene nella nostra lotta con gli ecosistemi planetari. Noi siamo, oggi, una sorta di meta-predatore che ha come preda il resto della natura. La nostra popolazione cresce a spese della nostra preda ed è quindi in corso una lotta tra noi e la nostra preda.

In una lotta tra noi e la natura, chi vincerà?

La risposta a questa domanda è ovvia: la natura. Non possiamo sopravvivere senza il resto della natura e siamo il risultato di processi evolutivi basati sull’organizzazione attuale della natura. Se la semplifichiamo troppo, erodendo la biodiversità, eroderemo anche le premesse per la nostra sopravvivenza. Preservare la natura, quindi, è di importanza cruciale. Non nell’interesse della natura, ma nel nostro interesse. La natura è perfettamente in grado di affrontare le catastrofi. La paleontologia ci insegna che una serie di estinzioni di massa ha caratterizzato la storia della vita. Ad ogni estinzione di massa, gli organismi predominanti scomparvero o furono radicalmente ridotti, e l’evoluzione portò ad altri organismi che, a loro volta, divennero dominanti. Quando questi diventarono troppo “pesanti” per gli ecosistemi, venne il loro turno per l’estinzione o la riduzione drastica, lasciando spazio ad altri prodotti dell’evoluzione.

Il successo di una specie, tecnicamente denominato fitness, si misura dalla sua biomassa, il risultato dell’obbedienza alle leggi della crescita. Tanto maggiore è la biomassa di una specie, tanto maggiore è il suo successo ma, anche, tanto maggiore è la sua pressione sul resto della natura. Avere grande successo espone la specie a grandi rischi di fallimento a causa del collasso dei sistemi che la sostengono sotto il suo peso ecologico.

Noi siamo la specie di maggior successo sul pianeta, almeno negli ecosistemi emersi. Il nostro peso ecologico, inoltre, non è solo quello dei nostri corpi, ma anche quello delle specie che usiamo per soddisfare i nostri bisogni.

C’è ancora l’oceano

A terra non siamo cacciatori e raccoglitori da millenni. Tutti i prodotti biologici che usiamo, siano di origine animale o vegetale, derivano dall’agricoltura. Negli oceani siamo ancora cacciatori e raccoglitori e, con la pesca, estraiamo risorse da popolazioni naturali. Anche in questo caso, tuttavia, i nostri progressi tecnologici stanno spingendo le popolazioni selvatiche verso l’estinzione commerciale. Persino l’oceano risulta incapace di darci quello di cui abbiamo bisogno, e stiamo rapidamente passando dalla pesca all’acquacoltura, la controparte acquatica dell’agricoltura. Il passaggio da cacciatori raccoglitori ad agricoltori sta avvenendo adesso, in mare! Una volta che avremo fatto all’oceano quel che abbiamo fatto alla terra, e lo stiamo facendo molto rapidamente, la nostra pressione sugli ecosistemi planetari avrà raggiunto il suo apice. Poi non avremo altri spazi ed altre risorse da sfruttare. L’evoluzione tecnologica ci sta aiutando sempre più a strizzare la natura e a spremere le sue risorse, ma i limiti sono stati raggiunti e, forse, persino superati.

La soluzione interplanetaria

Stephen Hawking, il famoso astrofisico, ha riconosciuto il problema e ci ha messo in guardia: il tempo stringe e il pianeta presto diventerà troppo ostile per permettere la nostra sopravvivenza. Riconoscere il problema è il primo passo per andare verso una soluzione. Hawking propone, come soluzione, la colonizzazione di altri pianeti: gli esopianeti! La sua proposta è stata presa seriamente da importanti organizzazioni come la NASA, e la ricerca di pianeti abitabili è diventata quasi un imperativo. I media coprono la scoperta di ogni esopianeta in modo entusiastico! E l’impressione è che ci siano tantissimi pianeti che stanno solo aspettando la colonizzazione umana.

Questa soluzione non ha alcun fondamento! Non ci possiamo attendere di trovare pianeti con ecosistemi che siano in grado di permettere la nostra sopravvivenza, e non possiamo pensare di portare con noi le varie componenti degli ecosistemi planetari, nella speranza di poterle riassemblare una volta raggiunto il pianeta promesso! Se il nostro comportamento sta distruggendo il pianeta, inoltre, cosa ci impedirà di fare altrettanto con il nuovo pianeta? C’è un solo pianeta, per noi. E dobbiamo prendercene cura. Suggerire di risolvere il problema colonizzando altri pianeti, invece, non fa che spostare il problema. Trasformando la nostra specie in un alieno nefasto.

Interpretare le leggi

La nostra folle corsa verso la crescita è un fenomeno naturalissimo perché la nostra specie, come tutte le altre specie, tende ad aumentare di numero. È una legge di natura: la legge della crescita. Pare che questa sia l’unica legge a cui gli economisti intendano obbedire, avendola fatta diventare una legge dell’economia. Un’altra legge di natura prevede che, quando le dimensioni di una popolazione superino la capacità portante di un ecosistema, il numero dei suoi rappresentanti diminuisca naturalmente, a causa della carenza di risorse: la legge del limite. Di solito la legge del limite si impone con la semplice riduzione numerica della popolazione troppo cresciuta che, a causa del proprio successo, ha eroso le premesse della propria sopravvivenza. Noi siamo una specie intelligente, e dovremmo imparare a limitare la nostra crescita in modo sostenibile, senza erodere il capitale naturale. Anche in economia, comunque, vale la legge del limite. Le bolle finanziarie non sono altro che una crescita eccessiva seguita da crisi che riportano le condizioni a un livello di maggiore “normalità”.

La legge dell’equità

Le popolazioni dei Paesi che hanno raggiunto il benessere materiale hanno cessato di crescere, mentre i Paesi in difficoltà tendono a crescere esponenzialmente. Nei Paesi ricchi l’età della prima riproduzione è molto tarda, mentre le donne dei Paesi poveri si riproducono precocemente e continuano a farlo finché il loro corpo lo permette. Le donne con istruzione superiore tendono ad avere meno figli delle donne meno educate. La bomba demografica sarà disinnescata quando i Paesi poveri non saranno più poveri. L’equità è il segreto della sopravvivenza. È anche nell’interesse dei Paesi ricchi condividere il proprio benessere con il resto del mondo, altrimenti la pressione demografica dei Paesi poveri sconvolgerà il funzionamento degli ecosistemi globali. Non si tratta di generosità da parte dei Paesi ricchi, è semplicemente una decisione necessaria, che sarà vantaggiosa anche per loro.

La cooperazione tra individui, in una specie sociale come la nostra, dovrebbe far parte della natura della specie stessa. Per noi, però, questa solidarietà è frammentata a livello dei diversi Paesi e delle diverse culture, in perenne competizione tra loro. La globalizzazione, però, impone che la risposta solidale avvenga a livello globale.

Evitare le conseguenze

Le conseguenze di una crescita continua della popolazione umana e della sua crescita economica saranno semplicemente disastrose, e stiamo iniziando a sperimentarle con il cambiamento globale. Le porzioni in crescita delle popolazioni umane si muoveranno verso aree dove pensano di trovare condizioni migliori, che offrano loro maggiori possibilità di sopravvivenza. Queste migrazioni non possono essere fermate e potrebbero persino portare a guerre globali, contro l’interesse di tutti i Paesi.

Abbiamo bisogno di una cultura differente per evitare queste conseguenze. Dobbiamo interpretare meglio le leggi della natura e gli umani si devono convincere che solo la cooperazione li può salvare. La tecnologia ci deve servire per produrre energia senza bruciare combustibili di qualunque tipo, e dovremo produrre il cibo in modi compatibili con la sopravvivenza dei sistemi naturali. Ma questo avrà significato solo se la nostra popolazione smetterà di crescere.

I Paesi ricchi non hanno escogitato alcuna misura per limitare la crescita delle proprie popolazioni e, paradossalmente, i loro governi sono preoccupati per la diminuita produzione di nuovi individui. Non possiamo imporre il controllo delle nascite ai Paesi poveri. Dovranno raggiungere il nostro stesso livello di benessere o, meglio, il nostro benessere dovrà andare incontro al loro malessere in termini di consumo di risorse. L’obesità deve essere eradicata proprio come la malnutrizione, perché entrambe sono una tragedia. Se tutti gli umani dovessero intraprendere una dieta prevalentemente carnivora, tipica degli occidentali, il pianeta non potrebbe sostenerci a lungo. I Paesi prevalentemente carnivori dovranno diminuire il consumo di cibo animale, condividendo le proteine animali con i Paesi che non si possono permettere la carne ma che hanno il diritto di aspirare ad aumentare la propria posizione trofica.Immagine 1

Il nuovo patto

Alcuni Paesi hanno già riconosciuto la centralità della natura nella loro Costituzione. Questo, però, deve portare ad un ruolo predominante dei fatti naturali nella costruzione della cultura nei nuovi individui. Questa costruzione ha luogo nei sistemi scolastici, dalla educazione primaria all’università. I politici e i decisori attualmente in carica ancora seguono l’imperativo ecologico ed economico della crescita, ma ne ignorano le conseguenze ecologiche ed economiche. Marx, con le crisi ricorrenti dal sistema capitalistico, ha riconosciuto i limiti della crescita e ha previsto che i picchi di produzione siano seguiti da periodi di crisi (le crisi ricorrenti del sistema capitalistico), come prima di lui predissero Malthus e Darwin. L’applicazione del sistema alternativo prefigurato da Marx per affrontare questi problemi non ha portato a risultati soddisfacenti, e ne dobbiamo inventare uno nuovo, basato su principi che sono già condivisi, in teoria, da tutti i sistemi religiosi e politici: equità e prosperità. Solo che questo obiettivo di solito vale per il proprio Paese, a spese di tutti gli altri: Donald Trump ha vinto le elezioni con il motto America First! Nell’inno nazionale tedesco la Germania è sopra tutti. Il problema che dobbiamo affrontare è globale e richiede un approccio globale: un patto planetario.

Immagina la conversione ecologica

La scienza è l’unica via verso la conoscenza disponibile agli umani: identifica l’ignoranza e la riduce con l’osservazione e la sperimentazione. La religione è una forma di conoscenza alternativa, basata sulla fede in un essere superiore che governa tutte le cose. La scienza e la religione hanno combattuto per secoli, una contro l’altra. Nel 2015, per la prima volta nella storia, un’autorità religiosa ha prodotto un documento ufficiale che invoca la conversione alla scienza. Jorge Bergoglio (papa Francesco) ha pubblicato l’enciclica Laudato Si’, chiedendo a tutti gli umani di convertirsi all’ecologia: la conversione ecologica. I principi dell’enciclica derivano da studi ecologici, “biodiversità” e “funzionamento degli ecosistemi” sono concetti ricorrenti, e Bergoglio denuncia l’iniquità che affligge molti Paesi. L’alleanza tra scienza e religione risponde a un appello di Wilson (2006), che scrisse una lettera a un’immaginaria figura religiosa, chiedendo il suo aiuto per salvare la vita sulla Terra. Un appello accolto da Bergoglio. La scienza produce conoscenza, e la rende disponibile all’umanità. I politici, le persone che scrivono le nostre leggi, dovrebbero utilizzare questa conoscenza con saggezza.

I tempi in cui ogni Paese ha sviluppato la propria politica e le proprie leggi, spesso in contrasto con le politiche e le leggi di altri Paesi, sono finiti. La globalizzazione richiede una politica globale. L’elaborazione di questa politica è l’unica grande sfida per la nostra specie. Se non comprenderemo che questo è il problema numero uno, e che non c’è il problema numero due, la natura farà il suo corso e la nostra specie svanirà, come quelle che prima di noi hanno dominato il pianeta Terra.

Conclusione

Ho iniziato a scrivere questo contributo con l’intenzione di dimostrare che il paradigma della crescita (economica e demografica) sia contro le leggi della natura, visto che i sistemi naturali che ci sostengono sono “finiti” ed esiste un limite alla crescita. Ma quando ho provato a rispondere alla domanda: quali sarebbero queste leggi della natura? mi sono sorpreso a dover ammettere che mi sbagliavo. Le stiamo seguendo alla lettera.

Riassumendo, la prima legge della natura impone che ogni specie tenda ad aumentare la propria numerosità e, infatti, misuriamo il successo di una specie dal numero di individui che la rappresentano, la fitness. Noi stiamo seguendo questa legge in tutto e per tutto. È anche scritta nella Bibbia: andate e moltiplicatevi.

Ma la legge che dice che tutte le specie tendono ad aumentare si correla con una seconda legge: anche se tutte tendono a farlo, non tutte possono farlo. La spiegazione è semplice: il mondo non potrebbe contenerle tutte, se tutte lo facessero. La seconda legge della natura, la legge del limite, corregge la prima legge: la capacità portante misura il limite della crescita.  Da qui la “lotta per l’esistenza”: le specie competono tra loro per utilizzare risorse limitate.

La storia della vita mostra che le specie che “vincono” hanno grande successo e poi, di solito, si estinguono e lasciano il campo ad altre specie. La grande abbondanza di una specie erode le risorse che la sostengono, fino al crollo. E altre specie prendono il suo posto. L’alternativa è smettere di crescere e restare sotto al limite: la sostenibilità. Le specie molto longeve, i fossili viventi, non sono rappresentate da moltissimi individui. Non hanno grande successo, ma restano sulla scena per molto molto tempo.

Non c’è contraddizione tra la legge della crescita e quella del crollo che ne consegue se non ci si ferma prima che sia troppo tardi. L’evoluzione per selezione naturale prevede che ci sia un ricambio tra le specie, proprio come c’è per gli individui: le specie nascono, crescono, muoiono. Generando altre specie, a volte.

Le specie non si curano delle altre specie. Pensano solo a se stesse. Non è “male” che un predatore uccida tutte le prede e poi si estingua. Finché ci sono prede le uccide e le mangia. I predatori non si preoccupano della buona salute delle popolazioni delle loro prede.

Noi abbiamo evoluto la tecnologia, un prodotto biologico visto che siamo entità biologiche, per aumentare la nostra efficienza nell’estrarre risorse. Se la “preda” diminuisce noi inventiamo nuovi modi per scovarla. Finiscono le popolazioni naturali? E noi inventiamo agricoltura e allevamento del bestiame: aumentando di numero erodiamo sempre di più il capitale naturale. La natura lo impone, come fa con tutte le altre specie, anch’esse incuranti delle conseguenze del proprio successo. John Maynard Keynes dice che non ci dobbiamo preoccupare del lungo termine: tra cento anni saremo tutti morti! Pensavo fosse matto, e invece enuncia una legge di natura. Gli economisti non si curano dell’erosione del capitale naturale, proprio come il leone non si cura dell’erosione di gazzelle e antilopi.

E quindi va bene così? Sì! Se non riusciremo a fermarci, la conseguenza sarà la nostra scomparsa, dovuta al nostro grande successo. Come è già avvenuto per le specie che, in passato, si sono alternate sul palcoscenico del pianeta vivente.

Che alternativa abbiamo? Semplice: dobbiamo contravvenire alla legge naturale della crescita, ma dobbiamo obbedire alla seconda, quella del limite. In modo da evitare quel che la natura prevede: le specie di successo o si fermano o sono spazzate via. Dobbiamo andare contro la naturale tendenza all’aumento dell’efficienza e della crescita numerica.

Come si fa? L’Italia mostra la via: ha smesso di crescere. Il motivo non è che non ci sono lavoro, e sicurezza. Nei Paesi dove la crescita demografica è prorompente non c’è lavoro e non c’è sicurezza. Noi abbiamo il benessere e abbiamo promosso l’istruzione femminile. Ecco come andare contro natura. Le donne non vogliono più essere produttrici seriali di nuovi esemplari, come natura vorrebbe.

Estendere benessere e istruzione per le donne a tutta la popolazione mondiale sarà la nostra salvezza grazie alla moderazione demografica. Per un po’ ci saranno più anziani che giovani, ma poi le cose si riequilibreranno.

Per restare sul palcoscenico della natura dobbiamo capire bene come funziona e quali sono le leggi che più ci convengono, adattandoci ad esse. Se, invece, ci comporteremo secondo natura, come tutti gli altri animali, faremo la fine dei protagonisti del passato, ad esempio i dinosauri! Abbiamo la possibilità di scegliere il nostro destino, contravvenendo alla legge della crescita senza che sia la natura a porre il limite: ci dobbiamo fermare prima. Un privilegio precluso a tutte le altre specie. La scienza ci dice che la sostenibilità è l’unico modo per contrastare la nostra stessa estinzione, e siamo già il primo predatore che si preoccupa della salute della sua preda: il resto della natura. Abbiamo le risorse per risolvere il paradosso della sopravvivenza, fermando la crescita prima che il limite sia superato in modo irreversibile: siamo sociali e intelligenti. Ce la possiamo fare. E se non ce la faremo… poco male. Non saremo certo in grado di far estinguere la natura!

Gli argomenti di questo articolo saranno ripresi nel libro Ecco perché i cani fanno la pipì sulle ruote delle macchine… in uscita a luglio 2018 per Manni Editore.

Bigliografia e sitografia

D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, W.W. Behrens III, 1972, The Limits to Growth. A Report for the Club of Rome’s Project on the Predicament of Mankind, Universe Books, New York, pp. 205

Rio Conventions (1992) https://www.cbd.int/rio/

E.O. Wilson 2006, The Creation: an appeal to save life on Earth, Norton, New York, pp. 175

F. Boero 2015, From Darwin’s Origin of Species towards a theory of natural history, F1000 Prime Reports, 7:49 (doi:10.12703/P7-49) 7 (49) http://f1000.com/prime/reports/b/7/49/

Lettera enciclica Laudato si’ del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune, 24 maggio 2015 http://w2.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html

J. Thiede, D. Aksnes, U. Bathmann, M. Betti, F. Boero, G. Boxshall, P. Cury, M. Dowell, R. Emmerson, M. Estrada, M. Fine, A. Grigelis, P. Herman, G. Herndl, J. Kuparinen, J.T. Martinsohn, O. Prášil, R. Serrão Santos, T. Soomere, C. Synolakis 2016, Marine Sustainability in an age of changing oceans and seas, EASAC policy report 28, Luxembourg: Publications Office of the European Union, pp. 52 (doi:10.2760/224776) http://www.interacademies.net/File.aspx?id=29455

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