La più antica esecuzione di musiche di Schönberg da parte di Karajan riguarda le Variazioni per orchestra op. 31, eseguite nel corso dei tre concerti tenuti a Berlino presso il Konzertsaal della Hochschule für Musik con i Berliner Philharmoniker tra l’11 e il 13 ottobre del 1962. Nel 1974 il poema sinfonico Pelleas und Melisande op. 5 fu eseguito in concerto da Karajan, nel breve volgere di pochi mesi, in tre diverse occasioni. In due concerti berlinesi tenutisi il 24 e il 25 febbraio 1967 Karajan eseguì inoltre i Gurrelieder con un cast vocale d’eccezione, che includeva, tra gli altri, Sena Jurinac e Christa Ludwig. Per il resto, a testimonianza di una tenace predilezione, una lunga serie di esecuzioni - ventidue, per la precisione - della trascrizione per orchestra d’archi del sestetto per due violini, due viole e due violoncelli Verklärte Nacht op. 4, la più antica delle quali risalente a un concerto berlinese del 25 giugno 1972. Di Alban Berg Karajan presentò in concerto tre sole composizioni: il Concerto per violino e orchestra, eseguito con solisti del calibro di Henryk Szeryng, Christian Ferras e Pierre Amoyal; la trascrizione per orchestra d’archi del secondo, terzo e quarto movimento della Lyrische Suite per quartetto d’archi e i Tre pezzi per orchestra op. 6, eseguiti per ben ventiquattro volte, tra il 1964 e il 1979. Quanto infine a Anton Webern, il repertorio di Karajan è circoscritto a quattro composizioni: la Passacaglia per orchestra op. 1, la trascrizione per orchestra d’archi dei Fünf Sätze für Streichquartett op. 5, i Sechs Stücke für Orchester op. 6 nella rielaborazione del 1928 e la Symphonie op. 21. Della Passacaglia risultano tre sole esecuzioni, quelle risalenti ai due concerti tenuti al Musikverein di Vienna con i Wiener Symphoniker l’8 e il 9 febbraio 1958 (di gran lunga le più antiche esecuzioni di musica della Seconda Scuola di Vienna rintracciabili nella concertografia di Karajan) e quella berlinese del 26 gennaio 1975. Segue la Symphonie op. 21 con quattro esecuzioni e poi i Sechs Stücke op. 6 e la trascrizione dei Fünf Sätze op. 5 con, rispettivamente, otto e ventidue esecuzioni. Questa lunga serie di esecuzioni, autentico percorso di preparazione e di progressivo affinamento, approdò, tra il 1972 e il 1974, alla registrazione in studio per Deutsche Grammophon, con i Berliner Philharmoniker, della gran parte dei pezzi presentati negli anni al pubblico dei concerti (uniche eccezioni i Gurrelieder e il Concerto per violino di Berg, che pure, come ho detto, fu eseguito da Karajan a più riprese e con diversi solisti). Il cofanetto di quattro vinili, pubblicato quarant’anni fa, nel 1974, con il numero di catalogo DG 2711-014, dopo una prima riedizione completa in CD (un cofanetto di 3 compact uscito nel 1989) e una serie di ulteriori ristampe parziali, ha molto di recente trovato la via di una nuova ristampa integrale all’interno del gigantesco cofanetto ‘Karajan 1970s. The Complete 1970s Orchestral Recordings’, uscito nel luglio del 2013.

Il primo incontro di Karajan con musiche della Seconda Scuola di Vienna risaliva già agli anni di studio e di apprendistato trascorsi a Vienna, tra il 1926 e il 1929, subito dopo il primo periodo di formazione a Salisburgo: non può dunque sorprendere il fatto che i dati raccolti fin qui rivelino un interesse che, se sarebbe fuori luogo definire centrale rispetto ad altre aree di repertorio ben più pervasivamente frequentate da Karajan tanto in concerto quanto in disco, merita però certo di essere considerato tutt’altro che episodico, o marginale. A questo va aggiunta una considerazione, per così dire, di contesto: Karajan cominciò a mettere in programma musiche di autori della Seconda Scuola di Vienna molto per tempo, già alla fine degli anni Cinquanta, quando presentare in pubblico e incidere in disco musiche di Schönberg, Berg e Webern era tutt’altro che usuale. Per limitare il campo a Schönberg, alla metà degli anni Settanta, ovvero all’epoca della pubblicazione del cofanetto Deutsche Grammophon, il mercato discografico metteva a disposizione l’ampia selezione messa in disco da Robert Craft per Columbia a partire dalla fine degli anni Cinquanta; l’analoga impresa affidata a Pierre Boulez dalla medesima etichetta fu messa in cantiere all’inizio degli anni Settanta (le incisioni più antiche risalgono al 1973, a ridosso, dunque, dell’uscita del cofanetto Karajan), ma fu portata a compimento soltanto un decennio più tardi. Per il resto, chi consulti la pregevole discografia schönberghiana di Wayne Shoaf potrà rendersi conto del fatto che fino a tempi molto recenti le incisioni di musiche di Schönberg si lasciavano ricondurre, fatte salve le eccezioni delle quali ho detto e poco altro, all’operato di pochi artisti sensibili alle ragioni della produzione musicale novecentesca (tra i direttori ricorderei soprattutto Hermann Scherchen, Dimitri Mitropoulos, Jascha Horenstein, Hans Rosbaud, René Leibowitz): un operato certo benemerito, ma isolato e sporadico, del tutto estraneo, per ovvie ragioni di mercato, a ogni logica di programmazione complessiva, di copertura sistematica.

Il rilievo mosso a più riprese da recensori, critici e biografi riguardo alla ormai ben salda canonicità del repertorio messo in disco da Karajan nel cofanetto del ’74 appare dunque indebitamente riduttivo almeno in relazione al problema rappresentato dai gusti e dalle attese del pubblico dei concerti e del disco, perché sovrappone e confonde due piani (quello, ristretto e settoriale, della canonizzazione negli studi e quello, ben più ampio e indifferenziato, del riconoscimento e della consacrazione presso il pubblico) che conviene invece tenere sempre accuratamente distinti. Alla metà degli anni Settanta Karajan era già da tempo all’apice della fama: la circostanza che abbia avvertito l’esigenza di mettersi in gioco programmando, contro il parere dei discografici, e investendo di conseguenza in proprio, una selezione significativa di registrazioni dedicate a musiche della Seconda Scuola di Vienna è circostanza che non ammette in alcun modo di essere sottovalutata o ridimensionata. Il fatto, in quanto tale incontestabile, che il grande successo commerciale del cofanetto sia da spiegare come conseguenza del formidabile prestigio di Karajan piuttosto che come spia di reale curiosità, nel pubblico, per le composizioni che conteneva non toglie poi nulla al valore della scelta operata da Karajan: ciò che più importa, mi sembra, è che grazie a Karajan una scelta di composizioni di Schönberg, Berg e Webern abbia raggiunto allora per la prima volta una quota molto ampia di ascoltatori. Aveva insomma ragione Massimo Mila, il quale, recensendo con il consueto acume, sulla “Stampa” del 4 ottobre 1988 un concerto scaligero di Gidon Kremer dedicato a musiche di Nono, scriveva: «La partecipazione dei grandi virtuosi alle imprese della musica moderna è per essa di enorme vantaggio: ah! ma se Gidon Kremer suona Nono, ah! ma se Karajan dirige i Cinque pezzi di Webern, allora vuol dire che ci dev’essere proprio qualcosa di buono. Così pensa la gente, e di questa garanzia, di questa malleveria intelligente e generosa va resa ai virtuosi molta gratitudine». Il che resta vero, direi, indipendentemente dalla reale capacità di effettiva, sostanziale riconfigurazione dei gusti del grande pubblico insita in operazioni del genere: capacità della quale, a valutare la tuttora perdurante rarità, nei programmi delle stagioni delle grandi istituzioni concertistiche italiane, del repertorio novecentesco (compreso, in fondo, il cosiddetto Novecento storico), si è purtroppo costretti, almeno per quanto riguarda l’Italia, a dubitare.

Riflettere sulle coordinate, sul senso generale dell’approccio di Karajan alle composizioni di Schönberg, Berg e Webern da lui incise quarant’anni or sono è operazione che ancora una volta non ammette semplificazioni, come è invece avvenuto spesso, fin dalle prime recensioni seguite alla pubblicazione del cofanetto; che non ammette, in particolare, di risolversi nella sottolineatura del bel suono, riducendo a fatto di puro e semplice compiacimento estetizzante un’esigenza di comprensione e di scavo che si lascia invece indovinare sostanziale, sincera. La prospettiva di lettura messa in campo da Karajan è di segno continuistico: Schönberg, Berg e Webern, ciascuno a suo modo, come approdo estremo, culminante e terminale insieme, di una traiettoria che, passando per Mahler e Strauss, trova il suo punto di partenza, le sue radici, in Wagner, nel Wagner del Tristan, soprattutto, che Karajan era tornato a incidere tra la fine del ’71 e l’inizio del ’72, per EMI, fornendone una lettura (intensamente lirica, vibratile, screziatissima, sensibile a ogni possibile sfumatura di colore, e insieme cupa e rassegnata, al limite dell’estenuazione) lontanissima da quella presentata al pubblico di Bayreuth, e poi diffusa in disco, nell’estate di vent’anni prima, tra il luglio e l’agosto del 1952. Tristaniani, in questo senso, appaiono tanto la tesa, intensa sovreccitazione emotiva di Verklärte Nacht  quanto la resa desolata, ombrosa, del Pelleas, che rimanda con decisione agli impasti prescelti da Karajan per il second’atto del Tristan consegnato al disco appena due anni prima; ma wagneriana, in fondo, è persino la Passacaglia op. 1 di Webern, che per densità di grana e per intensità di lirismo annuncia per certi versi il Siegfried-Idyll inciso appena più tardi, nel 1977. Per il Berg dei Tre Pezzi per orchestra op. 6 e per Webern (non solo il Webern dei Cinque Pezzi op. 5 e dei Sei Pezzi op. 6, ma anche quello della Sinfonia op. 21) il punto di riferimento è invece, piuttosto, il Mahler delle sinfonie dalla Quinta alla Nona, che Karajan, pur selettivamente, andava fissando in disco nel medesimo torno di tempo in cui lavorava al cofanetto dedicato ai tre grandi della Seconda Scuola di Vienna. Per fare un solo esempio, l’incipit della Sinfonia op. 21 di Webern non ha forse mai risuonato così intimamente vicino all’attacco della Nona Sinfonia di Mahler come nell’esecuzione di Karajan; così poco astrattamente glaciale, così pieno, nel suono, di concreta densità espressiva, di evidenza materica, così intriso di canto, umanissimo e commosso, pur nella frammentazione estrema delle linee, del discorso. L’approccio continuistico di Karajan è messo in crisi non dall’idioma del ‘radicale’ Webern, integrato senza sforzo all’interno della civiltà musicale della quale è percepito a pieno titolo partecipe, ma da quello dello Schönberg delle Variazioni per orchestra op. 31, che Karajan, dopo una serie di esecuzioni dal vivo, avvertì l’esigenza di registrare in studio incidendo le variazioni separatamente, modificando artificialmente, variazione dopo variazione, la disposizione spaziale degli strumentisti. L’artificio è spia di un disagio: per essere eseguite, le Variazioni dovettero essere sottratte all’alea dell’esecuzione dal vivo per essere fissate, come in provetta, dopo opportuna manipolazione, nel chiuso asettico di uno studio di registrazione tramutato in laboratorio. L’esito, pur mirabile, non può non far pensare al Benjamin dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: il fascino totemico del documento sonoro, artificiale e inalterabile, continuamente riproducibile, iterabile senza limiti, presuppone la rinuncia programmatica all’aura e nasconde un’esigenza precisa di controllo, se non di vero e proprio dominio, su un materiale che Karajan dovette percepire come irriducibilmente allotrio rispetto alle linee della tradizione, e dunque irrisolvibile, quasi sfingeo geroglifico, se non al prezzo della sua definitiva cristallizzazione.