Luigi Einaudi, primo presidente della Repubblica eletto dal Parlamento, già governatore della Banca d’Italia, dedicò nel corso della sua carriera di studioso e di pubblicista numerose pagine alla questione europea, su cui egli iniziò a riflettere sin dagli ultimi anni dell’Ottocento e continuò fino a quelli Cinquanta del Novecento, intensificando i suoi interventi nei periodi di più forte crisi, quelli dei due conflitti mondiali e dei due dopoguerra. Il suo pensiero ebbe un’influenza importante sulla redazione del Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni: con Rossi, in particolare, anche durante il lungo periodo di prigionia e poi di confino a cui questi era stato condannato nel 1930, tenne un fitto carteggio, in cui l’ipotesi federalista e la relativa letteratura vennero ampiamente discusse e analizzate; condivise poi con lui e Spinelli un breve periodo in Svizzera, nel 1944, dove erano tutti espatriati, e nel 1954 permise a Rossi di raccogliere e curare i suoi scritti in un’antologia (Il buongoverno) e di devolverne gli utili al Movimento federalista europeo, di cui anche Einaudi fu tra i promotori in Italia. Tuttavia, il suo contributo alla costruzione europea fu più teorico che politico e programmatico.

Il suo primo intervento al riguardo fu nel 1897 un articolo pubblicato su La Stampa in occasione della guerra in quell’anno dichiarata dalla Grecia all’impero ottomano per il possesso di Creta e il conseguente intervento antiellenico di Inghilterra, Francia, Russia, Italia, Germania e Austria, in cui egli coglieva un nascente principio degli Stati Uniti d’Europa e concludeva che «la nascita della federazione europea non sarà meno gloriosa solo perché sarà nata dal timore e dalla sfiducia reciproca e non invece dall’amore fraterno e da ideali umanitari» (Un sacerdote della stampa e gli Stati Uniti d’Europa).

Nel 1918 Einaudi tornò sul tema, dalle pagine del Corriere della sera, in particolare in relazione al progetto wilsoniano della Società delle Nazioni, che egli criticava duramente tesaurizzando l’insegnamento della storia e soprattutto di quella americana: poiché i molti tentativi di confederazione o unione (come il Sacro Romano Impero o la Santa Alleanza o lo statuto confederale americano del 1781) tra Stati che mantenevano la loro totale indipendenza erano immancabilmente falliti, bisognava «riandare colla mente ad esempi di Stati sovrani, i quali abbiano volontariamente rinunciato alla loro sovranità per scomparire nel seno di un nuovo Stato sovrano di ordine più elevato», come avevano fatto quelli americani con la Costituzione del 1787 (La Società delle Nazioni è un ideale possibile?). E in un altro articolo dello stesso anno, Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni, scriveva che «sovra ogni altra cosa è necessario distruggere le idee da cui la guerra è stata originata. Tra le quali idee feconde di male, se condotte alle loro estreme conseguenze, quella del dogma della sovranità assoluta e perfetta in se stessa è massimamente malefica».

Tali concetti verranno ribaditi dopo la Seconda guerra mondiale, e con ancora maggiore convinzione: «Il problema fondamentale della società moderna non sarà avviato a soluzione, se gli uomini non si persuaderanno che esiste un solo vero nemico del progresso e della libertà e questo è il mito dello stato sovrano, il mito della assoluta indipendenza degli uomini viventi in un dato corpo politico dagli altri uomini viventi in ogni altro corpo politico. Quel mito e null’altro fu alla radice delle due grandi guerre mondiali, poiché lo stato, ove sia sovrano perfetto, non può non essere autosufficiente in se stesso, ed è costretto a conquistare lo spazio vitale bastevole alla sua propria vita indipendente». Per tale motivo, Einaudi fu anche contrario al principio di non ingerenza, espressione dell’idea della sovranità assoluta e negatore della reale interdipendenza di tutti gli Stati, come la Seconda guerra mondiale aveva ampiamente dimostrato: gli Alleati avevano giustamente aderito all’obbligo di intervenire contro i regimi che mettevano a repentaglio la loro stessa esistenza (La teoria del non intervento). E in modo analogo, nel 1948, scrisse sul problema dell’atomica, risolvibile solo attraverso «la rinuncia alla sovranità militare da parte dei singoli stati», sul modello dei cantoni svizzeri e degli USA (Chi vuole la bomba atomica?).

Dell’organizzazione dello Stato federale europeo Einaudi parlò nel 1943 nello scritto Per una federazione economica europea: le ragioni profonde delle due guerre erano state le necessità produttive e la ricerca di nuovi mercati – in sostanza, la globalizzazione; se non si fosse creata una unione economica, quelle necessità avrebbero continuato a trovare sbocco solo nella guerra. La federazione avrebbe dovuto avere quindi un carattere prevalentemente economico e alcune competenze basilari, riguardanti la moneta, la libertà di circolazione, le dogane e la sicurezza.

Immagine: Il capo dello Stato Luigi Einaudi tiene un discorso dopo il giuramento; accanto a lui ci sono Gronchi e Bonomi che applaude (12 maggio 1948). Crediti: http://storia.camera.it/foto/19480512-capo-dello-stato-luigi-einaudi-tiene-discorso-dopo-giuramento, attraverso it.wikipedia.org/wiki

Argomenti

#Europa#Stati Uniti#presidente della Repubblica