Se esista o meno una “cultura europea” unitaria, ossia se, al di là delle tante differenze (linguistiche, confessionali, di tradizioni ecc.) e nonostante lo stato di guerra pressoché permanente tra le diverse entità politiche continentali nel corso dei secoli, sia rinvenibile un modo di pensare e di sentire comune, è un dibattito che ha radici antiche ed è ancora oggi aperto (cfr. da ultimo G. Galasso, Verso il futuro di un passato comune, in Europa: un’utopia in costruzione, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 2018). Labili per secoli i confini geografici, tante le identità, così complessa la storia che la domanda se e quando si sia iniziato a “ragionare europeo” – secondo una brillante espressione di Madame de Staël – è del tutto legittima (e le possibili risposte sono naturalmente molteplici).

La questione appassionò gli illuministi. Secondo questi, una coscienza europea era fiorita e maturata soprattutto a partire dal Rinascimento, con la formazione della cosiddetta “République des Lettres”, quella comunità sovranazionale di intellettuali che, attraverso le pubblicazioni a stampa e una fittissima rete di scambi epistolari, si trasmetteva informazioni, idee e risultati delle proprie ricerche, anche grazie all’uso comune del latino. Tale comunità aveva avuto poi massima espansione nel corso della rivoluzione scientifica, di cui fu uno dei caratteri più vitali: scienziati geograficamente molto distanti – si pensi, solo per citarne alcuni in ordine sparso e non rigorosamente cronologico, a Galileo e Torricelli in Italia, Copernico in Polonia, Newton e Robert Boyle in Inghilterra, Huygens e Leeuwenhoek in Olanda, Leibniz e Keplero in Germania, Tycho Brahe in Danimarca – poterono comunicare, dibattere (nonché spesso litigare), conferendo alla scienza quel carattere di pubblicità e comunicabilità che le è costitutivo.

Così scriveva Voltaire nel Secolo di Luigi XIV (1751): «una repubblica letteraria» si è stabilita «insensibilmente nell’Europa, malgrado le guerre e le religioni diverse». Per Voltaire erano state inoltre le grandi accademie seicentesche – come quella del Cimento fiorentina, la Royal Society londinese, o l’Académie royale des sciences parigina – a creare una grande societé des ésprits indipendente, a cui da ogni Paese erano giunti «soccorsi».

Anche Rousseau, nel Discours sur les sciences et les arts (1750), ravvisava i caratteri comuni degli europei oltre che nel loro «umore incostante», che li aveva indotti a viaggiare senza posa, nell’inclinazione verso le lettere, che aveva creato una comunità di spirito in tutto il continente.

Per lui l’Europa non poteva considerarsi una mera «collezione di popoli», bensì una società reale con costumi, religioni e abitudini simili, per cui l’allontanamento da essi da parte di uno dei popoli che la costituisce non può che suscitare immediatamente «torbidi»: un modo assai incisivo di esprimere la profonda interdipendenza che egli attribuiva a tutti i popoli europei.

Immagine: Lettura di L’Orphelin de la Chine (1755) di Voltaire, nel salone di Madame Geoffrin (Malmaison, 1812). Crediti: Anicet Charles Gabriel Lemonnier [Public domain]. Fonti: (Web Gallery of Art:   Info about artwork; http://wodka.over-blog.com/article-2064133.html; http://www.sothebys.com/en/auctions/ecatalogue/2013/old-master-paintings-n08952/lot.93.html (smaller Private collection replica); http://www.sothebys.com/content/dam/stb/lots/N08/N08952/578N08952_4CSP3.jpg (smaller Private collection replica); http://www.sothebys.com/content/dam/stb/lots/N08/N08952/1116N08952_4CSP3_comp.jpg.thumb.500.500.png (smaller Private collection replica), attraverso commons.wikimedia.org.

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