«L’autobus continuava ad avanzare rombando. Tornavo a casa in ottobre. Tutti tornano a casa in ottobre». Così scriveva Jack Kerouac in modo quasi profetico in On the road, il libro che lo ha consegnato a una fama duratura. Perché la morte era per lui un po’ un ritorno a casa; Fernanda Pivano ricordava come, nei primi giorni del 1958, Kerouac, «probabilmente già schiacciato dagli stereotipi che lo avrebbero ucciso», aveva confessato in un’intervista di essere enormemente triste, perché vivere era un gran peso, un grande faticosissimo peso, e «avrebbe voluto essere al sicuro, già morto». Sono passati 50 anni dal 21 ottobre del 1969 quando alle cinque e mezzo del mattino lo scrittore si metteva al sicuro, dopo ventisei trasfusioni sotto i ferri e una cirrosi epatica inarrestabile, morendo a soli 47 anni. Ci saranno molte commemorazioni, in questo ottobre del 2019, in istituzioni e in scuole un po’ lontane dal suo mondo; come scrisse in Big Sur, nelle scuole e nelle università lo pensavano «come un ragazzo di ventisei anni sempre in giro in autostop», mentre aveva quasi 40 anni ed era «annoiato e stanco». Essere il profeta della cosiddetta beat generation è stata una definizione e una condizione un po’ soffocante per Kerouac, che sfuggiva agli stereotipi della cultura ufficiale e ai paradigmi del sogno americano, ma anche a quelli della controcultura, con il suo essere mistico, un po’ cattolico e un po’ buddista, apolitico, e non avverso alla guerra del Vietnam. Eppure di una o più generazioni ha cantato l’irrequietezza, l’andare sulla strada alla ricerca di qualcosa, di un’autenticità irraggiungibile. Kerouac voleva essere un poeta jazz e se non reggeva al peso o meglio alla leggerezza insiti nell’essere soltanto il simbolo di una generazione ribelle, ne fu stilisticamente la voce, con la sua “prosa spontanea”, che oltrepassava le regole sintattiche e grammaticali tradizionali. Importante fu soprattutto la relazione con il gruppo ristretto, ma significativo, di poeti e di scrittori: Lucien Carr, Allen Ginsberg, William S. Burroughs, Gregory Corso, Neal Cassady, Gary Snyder, Norman Mailer, Lawrence Ferlinghetti. Un rapporto effettivo, una comunità di autori che si frequentava e intrecciava i suoi percorsi, viveva insieme, viaggiava insieme, condivideva droghe ed esperienze. Fu Kerouac a inventare il titolo Naked lunch per il libro di William S. Burroughs, e a suggerire a Ginsberg il titolo di Howl; l’influenza reciproca tra loro fu grandissima. L’attualità di Jack Kerouac non va ricercata nella sua straordinaria e irripetibile biografia, con i suoi viaggi nelle strade e all’interno della coscienza, con l’accavallarsi disordinato di momenti di serenità e altri, forse più frequenti, di angoscia, ma nella ricerca di una scrittura, di una lingua, in grado di saltare gli steccati della convezione per cercare il ritmo autentico e la ricerca di senso di una generazione.

Immagine: Jack Kerouac (1956 circa). Crediti: Tom Palumbo [Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic], attraverso ia.wikipedia.org

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