In una pagina di Parla, ricordo, Nabokov ricorda «il sole [che] si frantuma in gemme geometriche dopo essere passato attraverso rombi e riquadri di vetro colorato. […] Visto attraverso quei magici vetri, il giardino diventa stranamente silenzioso e remoto. Guardando attraverso il vetro blu, la sabbia si faceva cenere mentre alberi inchiostro nuotavano in un cielo tropicale. Il giallo creava un mondo d’ambra, immerso in un’infusione super concentrata di sole»: è un’immagine che evoca, con sottile ironia, l’impossibilità che anche una sola particella bruta di realtà si trasfonda nella pagina letteraria senza che qualcosa, prima, la abbia mutata.

La menzione Treccani conferita, nell’ambito della XXXI edizione del Premio Italo Calvino, al romanzo Sinfonia delle nuvole, dell’esordiente Giulio Nardo, acquisisce un sapore particolare proprio per l’attenzione, acerba ma già interessantissima, che l’autore ha riposto nelle capacità della lingua di plasmare un mondo che sia totalmente eliso da quello fenomenico, sebbene ad esso isomorfo: a questo fine, l’opera approda tramite l’abbandono del linguaggio inteso nella sua sfera denotativa più cruda, a favore di una dimensione connotativa che solo grazie a profonda torsione il derma linguistico potrà essudare, come olio dei più preziosi.

E nella motivazione, infatti, questa tendenza viene sottolineata con precisione: «Per la capacità di trovare nella linearità e nella precisione una personale cifra di libertà, attraverso l’adozione di una lingua che piegandosi allo svolgersi del racconto, lontana dalla tentazione di virtuosismi ma allo stesso tempo mai placida, rimane creativa e imprevedibile, capace, attraverso un’accorta differenziazione dei registri lessicali, di portare il lettore dentro il romanzo accompagnandone la lettura in un equilibrio dinamico fra trama e parola».

Ma, in primis, affinché tutto ciò abbia luogo, la slogatura dovrà slanciarsi nella forma di epistrophé, nella forma di un cammino a ritroso attraverso il quale, grazie all’esilio dall’attualità corriva, sia l’elisio ad essere nuovamente attinto: un Paradiso che non potrà che avere la forma di un’immersione genealogica nella lingua letteraria italiana, scolpita in una oscillazione peculiare fra norma e scarto; è così che la scrittura cerca di lasciare vibrare, nel bronzo della sua materia, un suono che si stacchi dall’opacità greve e spessa per confondersi con un’eco di cui, per citare Karen Blixen, «ho ascoltato la musica molto tempo fa, ma dove?».

È spesso una gnosi involontaria a spingere lo scrittore verso una lingua che accolga un’espressività la quale deriverà non da una ricerca banale dell’effettaccio, bensì da un’immersione profonda, quasi iniziatica, nel pozzo etimologico; alla sua prima prova, Nardo compie uno sforzo realmente notevole per svincolarsi dalla cogente omogeneità che la lingua ha purtroppo assunto fra le sue pieghe, tentando di rianimare la parola ad un’organicità che la sua attualità amorfa ha purtroppo dissimulato. Sebbene il suo romanzo sia venato, talvolta, di ingenuità (attribuibili naturalmente alla giovane età dell’autore), Nardo riesce ad evitare il sacrificio dell’hic et nunc, a favore di una trasfigurazione del pensiero la quale potrà solamente avvenire nel ritmo che le parole, con la loro sonorità e profondità, evocano: in un’analisi psicologica che troverà, dossianamente, le proprie dinamiche nel movimento proteiforme della lingua, autentico motore delle pagine.

Sarà quindi l’attenzione lessicale, la forma che le parole assumono, la vera onda capace di muovere i significati, la cui classicità potrebbe sembrare, ad un occhio anche minimamente allenato, un po’ banale: della storia di un uomo mancato, Nardo estrae l’essenza non attraverso un’analisi psicologica vecchiotta e già pronunciata; grazie ad una ricerca linguistica di lodevolissima preziosità, essa emerge nel suono che le parole lasciano risuonare fra le pagine articolate e complesse che questo esordio lascia risuonare nella mente del lettore.

Sebbene, è Nabokov stesso a sottolinearlo, il «pannello di insipido qualunque», sia «il vetro attraverso cui, anni dopo, la riarsa nostalgia avrebbe anelato spiare».

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