Dopo il recente trambusto legato alla scelta della capitale europea della cultura del 2019, la domanda sorge spontanea: la cultura ha bisogno di una capitale? A tal proposito bisognerebbe leggersi il volume Cultura senza Capitale. Storia e tradimento di un’idea italiana di Simone Verde (Marsilio, 2014).
Verde, storico dell’arte che lavora per il Louvre, sostiene che ci voglia una Capitale - nel senso di città principale dello Stato nazione ottocentesco - per foraggiare la cultura.
Un testo illuminante e apocalittico, questo suo saggio – che al momento dell’uscita si è ben meritato 17.000 battute di recensione da parte di Paolo Mieli sul Corsera – il quale si palesa presto come avvincente indagine sullo stato dell’arte, offrendo un’estrosità delle soluzioni proposte raramente riscontrabile in siffatte pubblicazioni. Lo “stato culturale” è un’invenzione italiana. Ma l’Italia è anche il paese dei musei chiusi, delle aree archeologiche che cadono a pezzi, delle opere d’arte abbandonate, dei capolavori saccheggiati dai francesi. I francesi. Loro, sì che se ne intendono di pianificazione culturale. E se staccare i biglietti con le Gioconde degli altri non è tutto, allora tuffiamoci nel modello americano dell’efficienza a ogni costo. Confrontando la storia e le pratiche del nostro paese con quelle dei due più importanti modelli occidentali, Verde scopre solo desolata incapacità e/o mancanza di volontà nel creare una potente infrastruttura nazionale, tra l’indifferenza generale. Alla fine l'autore lancia una sfida: «Che la cultura italiana, i suoi beni e le sue attività vengano investiti da una rigenerazione per farsi promotori di un nuovo progetto di modernità e diventare finalmente volano per l’innovazione e lo sviluppo!».
È una bella idea. Ma non dimentichiamo che lo stato italiano nacque male – da un punto vista della tutela e valorizzazione dell’esistente oltre che di promozione del nuovo e del cool - perché i piemontesi non avevano leggi in proposito. Un settore insomma considerato superfluo. «Con la cultura non si mangia!» tuonavano solo pochi anni fa i ministri padani. Ma quella è un’altra storia. Anzi, è la stessa storia. Perché ci conduce dritti dritti alla meta. E cioè: oggi, dov’è l’Italia? In questo caso lo stato non esiste. Ovvero, lo Stato è a Bruxelles. Sono loro che controllano i bilanci. Sono loro che devono sborsare i quattrini. Ecco spiegata la fregola di divenire capitale culturale europea. Il bisogno di ritrovare, sotto ogni forma possibile, quello Stato mecenate che in passato s’espresse per mezzo di principi, papi e signorotti e che dopo il marxismo sfociò nelle grandi dittature di massa novecentesche le quali diedero l’illusione che nella democrazia popolare l’arte fosse libera e al servizio della gente.
Oggi, nella liquidità torbida del post contemporaneo – segnata dall’assenza totale di liquidità finanziaria – la palla torna al centro (o la tela ridiventa bianca, se preferite) e la potestà statuale emanatrice della fruizione estetica va ricercata in quei mostri di ipercavillosità sovrannazionali che sono i conglomerati di stati o comunità multinazionali. La UE, per intenderci. Creati per semplificare la vita al cittadino. Ma anche per complicarla. Configurandosi anche come nuovi Stati Pontifici laici, queste fabbriche di cultura - nel senso proposto dal Verde - si caratterizzano ovviamente per la vastità dei territori interessati dai potenziali interventi. Motivo per cui diviene indispensabile definire luoghi simbolo onde espletare la necessaria forza evocatrice di tali operazioni. Ecco perché un’unione a caso di nazioni ha bisogno d’eleggersi ogni anno la sua capitale. Basterà questo a salvare - e innovare al tempo stesso, rendendola economicamente redditizia - la nostra cultura?
La risposta la troviamo tornando alla quaestio di partenza: la cultura ha bisogno di una capitale?
Sì. Forse. Di sicuro, però, abbisogna di capitali (€).
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