Nel 1928 Theodor Adorno diede alle stampe un saggio su Schubert destinato a fare epoca: apparso nella ventunesima annata della rivista ‘Die Musik’, fu poi ristampato, nel 1964, nella raccolta Moments musicaux.

Sono pagine alle quali torno spesso, convinto come sono del fatto che in esse si trovino risposte decisive ai problemi che la musica di Schubert pone, ai suoi esegeti tanto quanto ai suoi ascoltatori. Il che dipende certo anche dal taglio decisamente letterario imposto dall’autore alle sue riflessioni: un taglio che, come è stato messo in luce di recente da Beate Perrey, aggirando i tecnicismi propri dei lavori di taglio scientifico, consente al suo autore di dialogare in modo non mediato con l’oggetto del suo studio.

Basta rileggere l’incipit del saggio per avere un’idea del procedere di Adorno. Un incipit, formidabile, che cito qui di seguito nella traduzione di Giuseppe Serra: «Chi varca la soglia tra gli anni di morte di Beethoven e di Schubert è colto da un brivido qual simile può provare chi da un cratere rimbombante, sconvolto, raffreddantesi, giunge a una luce dolorosamente sottile, paludata di bianco, e davanti alle figure di lava della vetta spalancata senza difesa scorge oscure trame vegetali, per scoprire infine, vicino al monte e tuttavia alto sopra il suo capo, il cammino delle nuvole eterne».

Per quanto la musica di Schubert, prosegue Adorno, non contenga in sé «la potenza della volontà attiva» (die Macht des tätigen Willens) che costituisce il nucleo della creatività beethoveniana, la profondità ctonia alla quale conducono «gli orridi e le forre che la solcano» è la medesima alla quale mena la musica di Beethoven, che da quell’abisso, da quel ‘cratere spalancato’, procede. E se il dominio della materia, in Schubert, non corrisponde al ferreo controllo esercitato su di essa dal suo predecessore, le stelle che illuminano il paesaggio dell’uno sono le stelle in direzione delle quali si era protesa la fervida mano dell’altro.

Il discorso adorniano su Schubert, dunque, come un discorso sul paesaggio: un paesaggio che, come è chiaro dall’incipit che ho appena citato, l’ascoltatore è chiamato a percorrere, con un brivido, insieme a colui che, misurandosi con l’immediato passato, ne configura, quasi a tentoni, le prerogative, disegnandolo. Un paesaggio rarefatto, fatto per essere percorso con un senso attonito di scoperta: da qui, in Adorno, le dense riflessioni che seguono sulla del tutto inedita dimensione circolare del tempo che tale paesaggio determina. Da qui, anche, l’insistenza sulla centralità, in Schubert, della figura del viandante, a culminare con la Winterreise, ove l’impietrito, silente paesaggio vulcanico dell’incipit, fatto, attorno all’abisso del cratere, di figure di lava, di oscure trame vegetali, di nuvole eterne, si fa senza più indugio alcuno Landschaft des Todes: paesaggio, ctonio, di morte.

Ma sul tempo che, nell’apparente girare a vuoto delle forme, simili in tutto, nel loro dipanarsi, al desolato vagare senza meta del viandante del ciclo, si annulla nell’infinita ripetizione dell’identico, brilla pur tuttavia il raggio di una luce ‘dolorosamente sottile’, sbiancata: la luce, fredda e accecante, che ben conosce chi pratica l’alta montagna. E la luce bianca e rarefatta che illumina di giorno il paesaggio pietrificato di Schubert trova il suo corrispondente notturno nella luce altrettanto fredda e lontana delle stelle che lo illuminano di notte.

Nella Winterreise questa luce si fa ancora più fredda e bianca in virtù del paesaggio invernale, ghiacciato, che la riflette. Ed è questo, in fondo, che esclude, dal tragitto circolare della Winterreise, quel raggio, pur flebile, di speranza, se non proprio di riscatto, che riesce, per pura forza di miracolo, a brillare altrove, in Schubert: in alcuni suoi finali, ad esempio, di sinfonia o di sonata. Il paesaggio della Winterreise, fatto di banderuole sconvolte dal vento, di neve che si scioglie al calore delle lacrime versate a terra dal viandante nel suo cammino, di fiumi congelati, di fuochi fatui, di foglie che cadono a terra tramortite dal vento e dal freddo, di uccelli di malaugurio, di cani che ululano ostili, di cimiteri, è tutto percorso, quasi a ogni passo, dalla dolorosa evidenza del ricordo, della memoria di ciò che fu e non è più: il giorno del primo saluto all’amata; quello del primo, lieto ingresso in città; il dolce ristoro profuso dall’ombra del tiglio, un tempo sede felice di sogni d’amore, ora richiamo funereo di morte; e poi i fiori, e le foglie, e il cinguettio lieto degli uccelli, e il verde dell’erba, ricoperta adesso dalla neve, e il lieto rigoglio della primavera, che in ‘Frühlingstraum’ il viandante rievoca in sogno. Ed è, anche, quello della Winterreise, largamente, paesaggio notturno, oltre che paesaggio invernale. Per il che riesce utile tornare all’aforisma di Brendel al quale mi è già capitato di alludere in passato: Schubert come ‘Schlafwandler’, come sonnambulo. Il che, per la Winterreise, è forse più vero ancora che per le sonate, alle quali l’aforisma si applica, in Brendel. Il puro ‘accadere’ delle sonate, il loro darsi sfingeo, enigmatico, e insieme disarmante, ingenuo, trova nel vagare notturno del raggelato viandante della Winterreise una sorta di trasposizione in immagine, di icastica, visiva rappresentazione.

Lo scorso 3 dicembre la romana Istituzione Universitaria dei Concerti ha ospitato Christoph Prégardien, il quale, accompagnato dal fido Michael Gees, ha eseguito appunto la Winterreise, da lui tanto spesso presentata in pubblico, e incisa in disco almeno due volte: nel 1996 con Andreas Staier, e poi di nuovo nel 2012 appunto con Gees. Prégardien è entrato in scena indossando una desueta redingote scura che faceva pensare al viandante del famoso quadro di Caspar David Friedrich: un’epifania che, studiata o meno che fosse, contribuiva però fin da subito a collocare l’esecuzione del ciclo in una prospettiva di distanza. Ormai sessantenne, Prégardien serba ancora in larga parte intatto il timbro chiaro, intensamente lirico, che i suoi ammiratori gli conoscono da sempre, declinato adesso però, con intelligenza e sensibilità se possibile più acute ancora di quanto non fosse un tempo, tenendo conto delle esigenze nuove poste dal pur appena percettibile offuscamento prodotto dagli anni.

Il timbro miracoloso di Prégardien: sbiancato al limite del latteo, specie in alto, come quello, inconfondibile, del grande Karl Erb, senza però mai pervenire davvero, come invece così spesso, in Erb, a farsi aguzzo e tagliente; pieno e pastoso, al contrario, nei centri, a evocare liederisti di impianto propriamente lirico, tra tutti Anders e Wunderlich, è servito a restituire una Winterreise che, complice un accompagnatore altrettanto intelligente nel fornire al cantante un tappeto sonoro risultato, all’ascolto, ancora più accennato, se non proprio improvvisato, che declamato con ornata eloquenza, è apparsa ‘accadere’, lied dopo lied, assai più che darsi come sviluppo di un percorso preordinato.

Di tappa in tappa, il tragitto del viandante schubertiano si è svolto dunque, con Prégardien e Gees, in termini che non hanno mai fatto perdere di vista la dimensione popolare, di Hausmusik, che dell’arte liederistica è propria in essenza, piegando d’altro canto la sensata sottolineatura del domestico e del dilettantesco, pur mediata per via di colta, consapevole mimesi, a un’espressività trasognata, di intensità modernissima, a tratti persino insostenibile, specie là dove il dettato schubertiano si fa più aspro e petroso, a rendere in canto ora il duro del ghiaccio e il freddo della neve, ora il tremolare di una foglia pronta a cadere a terra scossa dal vento: come, ad esempio, in ‘Letzte Hoffnung’, ove la costante dislocazione degli accenti, l’enigmatica irresolutezza degli intervalli, conferiscono al lied un’aura di erratica, angosciosa provvisorietà, o nella resa, davvero lancinante, delle volute in sedicesimi che accompagnano, in ‘Rast’, i versi finali delle due strofi.

Ma la resa di Prégardien e di Gees, se si è rivelata ideale a realizzare ora la trama dei lieder più glacialmente impietriti in stupefatta assenza di moto: ‘Gefrorne Tränen’, ad esempio, o ‘Wasserflut’, o ancora ‘Auf dem Flusse’; ora quella dei pezzi per converso più inesorabilmente mossi e inquieti: ‘Die Wetterfahne’, ‘Erstarrung’, ‘Rückblick’, e così via, di numero in numero; ora, ancora, l’ordito di lieder quali ‘Die Krähe’, ove il funebre presagio di morte veicolato dal volo della cornacchia ha trovato non solo perfetta resa di canto, ma anche un appena alluso, ma efficacissimo, accenno di stupita, attonita recitazione, non è apparsa meno adatta a rendere la sognante atmosfera dei lieder contemplativi. Ché anzi la dimensione della memoria, le dolenti epifanie della felicità trascorsa che trapuntano il percorso del viandante fin dal primo lied del ciclo, ‘Gute Nacht’, nel timbro chiaro, luminoso, di Prégardien hanno trovato una resa prossima alla trasparenza, alla trasfigurazione in pura luce. La medesima luce della quale fa parola Adorno all’inizio del saggio dal quale ho preso le mosse, e Aragon nell’esergo da Adorno scelto per il suo saggio: «Tout le corps inutile était envahi par la transparence. Peu à peu le corps se fit lumière. Le sang rayon. Les membres dans un geste incompréhensible se figèrent. Et l’homme ne fut plus qu’un signe entre les constellations».

Una serata, insomma, memorabile, della quale non si può non essere grati ai responsabili delle stagioni della IUC, specie a tenere in conto il fatto che le apparizioni di Prégardien in Italia non sono certo evento quotidiano. Peccato, soltanto, per gli applausi scoppiati fragorosi quando l’eco delle ultime note del ‘Leiermann’ non si era ancora spenta del tutto: a testimonianza, però, di un successo, franco e pieno, pari all’attenzione davvero spasmodica con la quale l’esibizione di Prégardien è stata seguita passo passo dal folto pubblico presente in sala.