L'esperienza di Neil MacGregor alla direzione del British Museum, iniziata nell'ormai lontano 2002, si chiude quest'anno con una grande mostra dedicata alla rappresentazione del corpo nell'antica Grecia, occasione buona per rivisitare anche le gallerie permanenti del mondo classico. Noto in Italia come autore del best-seller "La storia del mondo in 100 oggetti" (Adelphi, 2012) MacGregor è stato spesso al centro delle polemiche fra Grecia e Inghilterra intorno ai marmi del Partenone, e non è forse un caso che l'ultima esposizione a tenersi sotto la sua egida abbia al centro proprio alcuni dei pezzi contesi, tra cui quel dio Ilisso che, prestato all'Hermitage di San Pietroburgo lo scorso gennaio, è divenuto il primo dei celebri fregi a varcare i confini britannici in oltre duecento anni.

Insieme a quelle egizie, le antichità greche e romane formano il cuore storico del museo. Se molti pezzi sono di assoluto prim'ordine, specialmente per quanto riguarda la ceramica a figure rosse e nere, l'ambiente è purtroppo ospedaliero e sonnolento: piastrelle bianche e teche anonime rafforzano l'impressione di trasandata noncuranza. (Chissà che fine avranno fatto le bellissime teche in mogano e vetro del secolo scorso, soltanto un paio sopravvivono al piano superiore). Inoltre, come nelle altre sale del museo, anche in quella che ospita i marmi, inaugurata nel 1939 dal filantropo Joseph Duveen (lo stesso che ne promosse un disastroso restauro), le pareti ocra hanno la singolare capacità di appiattire ogni cosa: dai fregi alle metope, volumi e contorni svaniscono.

Certo non mancano le eccezioni, e così, ad esempio, le collezioni asiatiche e sassoni risplendono in ricollocamenti ben riusciti. Per quanto riguarda i Greci, la sorpresa si nasconde in un mezzanino sempre deserto dove sono conservati i ventitré fregi del tempio di Apollo Epicurio in Messenia. Qui l'allestimento, illuminazione compresa, è un piccolo capolavoro, e c'è da augurarsi che l'impossibile orario di apertura (un'ora al giorno, dalle undici alle dodici) sia presto esteso.

Lo stesso Ian Jenkins, responsabile dell'organizzazione di alcune sale permanenti, ha curato "Defining Beauty: The Body in Ancient Greek Art", che ne riflette l'interesse comparatistico per l'arte greca, egizia e assira. Il visitatore non si lasci ingannare dal titolo: definire la bellezza è quanto di più lontano dalle intenzioni del curatore. Piuttosto, eccettuati pochi ma significativi prestiti da Roma e Berlino, la mostra è un'eccellente occasione per esporre taluni reperti appartenenti al museo e, per ragioni di spazio, solitamente relegati nei depositi. Dopo il 'ton sur tone' delle gallerie permanenti, la penombra dell'ambiente accentuata dagli sfondi scuri, discretamente illuminati, è già un sollievo per gli occhi. Le statue prendono quasi vita, i giochi di luci e ombre donano una plasticità nuova.

Ad accogliere il visitatore è il generoso sedere di un'Afrodite romana, copia del secondo secolo, piuttosto goffa nei movimenti e nell'espressione. Poco distante, la rara scultura bronzea di un atleta del quinto secolo, ritrovata in Croazia sul finire degli anni Novanta, vale già il costo del biglietto, ed è accostata ad Ilisso che soltanto pochi mesi fa era stato possibile ammirare, per la prima volta, sul magico sfondo di San Pietroburgo. I problemi cominciano nello spazio seguente, dedicato al falso mito di una scultura acroma e "pura" tramandatoci dal gusto ottocentesco. Guardando le goffe riproduzioni di un'Atena crisoelefantina, o la coppia di Kouroi dall'arcaico sorriso, come non condividere il celebre orrore di Winckelmann per il colore. Facile invece dimenticare, seguendo il racconto del curatore, come la maggior parte della statuaria greca, giunta a noi perlopiù attraverso copie romane, era tuttavia bronzea e non di marmo.

Defining Beauty inaugura la nuova galleria Sainsbury, ed è firmato dai designer Caruso St John e Matt Bigg. L'innovazione principale, suggerita dagli oltre sei metri d'altezza degli ambienti, è l'aver posto la maggior parte degli oggetti a un livello più elevato del solito, permettendo di osservare le opere da punti di vista differenti. Sebbene piacevole, delude il prudente uso di fari e chiaroscuri, così come deludono i cromatismi dei pannelli. Lasciano perplessi anche i piedistalli dalle ampie basi lignee, simili a grandi panchine quadrate dov'è però proibito sedersi. (Per un allestimento di grande effetto, si veda il lavoro di Antony Gormley, ancora una volta all'Hermitage).

Se è difficile seguire il nesso logico fra una sala e l'altra, e futile cercare le motivazioni che hanno portato alla scelta di un manufatto piuttosto che un altro, anche il più profano dei visitatori avrà verso la fine del percorso qualche certezza in più, ad esempio, la netta superiorità di qualsiasi manufatto greco, soprattutto se bronzeo, sulle copie romane. Utili poi gli accostamenti fra reperti greci arcaici e classici e altri egizi e assiri, e poi ancora fra manufatti ellenistici e indiani, a dimostrare un dialogo tra le culture forse un po' anacronistico per un popolo che vedeva nell'altro un sinonimo di barbaro (parola che, in catalogo e didascalie, è naturalmente virgolettata). Da ultimo, infine, tre opere tolgono il fiato e fanno dimenticare la disorganicità di quanto visto finora. Da una parte il dioscuro del Partenone, prestito interno, si offre allo sguardo devastato dalle ingiurie del tempo e da puliture sbagliate, ma ancora avvolto dalla sua potente aura. Dall'altra, il celebre Torso del Belvedere dei Musei Vaticani, posto su un alto piedistallo si trasforma rivelando dinamismi inattesi. E fra i due, quel celebre disegno a sanguigna di Michelangelo, sintesi e ponte a tutto il manierismo occidentale, ma questa è un'altra storia.

"Defining Beauty: The Body in Ancient Greek Art"

a cura di Ian Jenkins

Londra, British Museum, fino al 5 luglio

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