“Certo, l'oggetto unico e perpetuo dell'anima è appunto ciò che non esiste: ciò che fu, e che non è più – ciò che sarà e non è ancora – ciò che è possibile, ciò che è impossibile – ecco ciò che interessa l'anima, ma mai, mai ciò che è!” Così Valéry, per bocca di Socrate, tesse un filo sottile ma persistente fra l'anima e la danza, questo espandersi metamorfico del corpo, simmetrico e distaccato dall'orrore del quotidiano, che così tanto somiglia alla scrittura, nella sua capacità di scindere sé stessa dal dettato quotidiano per inventare mondi e universi e ritornare, trasfigurata, alla propria figura.
È con un certo sollievo che apprendiamo, dopo lo stillicidio impietoso di tutti gli autori il cui fine supremo è la “naturalezza”, intesa come totale assenza di lavoro sulla lingua e attenzione agli aspetti sociali dell'opera, che questi “scrittori mediocri soffrono, quasi come se non fossero scrittori, costretti viziosamente a riprodurre gli esseri che già conoscono... (che gusto c'è a non inventare la propria moglie, i propri angeli e demoni?)”. Devoto di quella “briosa, gentile impenetrabilità all'altrui violenza e bassezza” che potremmo in una parola definire sprezzatura, Juan Rodolfo Wilcock sparge a piene mani una grazia agli antipodi della pesantezza di chi intende la letteratura come un spazio capace di cambiare e migliorare il mondo.
E come quei pochi che, nonostante la separazione dalla propria lingua, sono rimasti grandi scrittori, l'argentino Wilcock, dopo essersi trasferito a Roma, acquisisce una padronanza così perfetta della lingua italiana che gli permette di sfoggiare una scrittura funambolica e ricchissima, attenta alla plasticità e alle infinite strade che le fessure fra significante e significato, spesso impercettibili ad un madrelingua, spalancano con un lieve ronzio, portandolo a quel capolavoro indiscusso costituito da I due allegri indiani, in poche parole il Fuoco pallido della letteratura italiana del '900.
Ristampato da poco da Adelphi, La sinagoga degli iconoclasti è solo in apparenza un'opera meno ambiziosa e più “facile” rispetto al romanzo appena citato: di primo acchito, un semplice elenco di vite immaginarie più o meno bizzarre, sempre molto divertenti e spiazzanti. In realtà, dietro all'innocua teoria di biografie, serpeggia la volontà tutt'altro che innocente di plasmare un mondo la cui struttura, nonostante l'accumulo spesso sconsiderato e rischiosissimo di elementi eterocliti, mantiene intatta la sua forma, mentre in un romanzo di Zola, probabilmente, fra famiglie torbide, madri ubriache e figlie prostitute, “se a un tratto fra i personaggi apparissero un egizio, o semplicemente un pesce volante, ho l'impressione che il romanzo barcollerebbe, a dimostrare la fragilità della sua struttura.”
E così, in un teatro allucinatorio di utopisti inglesi che rifiutano la contemporaneità tentando di riportare il mondo al suo periodo più felice, il 1580, abolendo tutto ciò che è stato inventato successivamente; di creatori di macchine filosofiche che arbitrariamente accostano le parole più disparate attraverso il movimento di ruote dentate caricate a molla; di enciclopedisti che annullano il ritmo spezzato delle loro immense opere inserendo, al posto delle divagazioni erudite, brevi passi narrativi concatenati fra di loro; di romanzieri che organizzano la propria scrittura in una catena di montaggio composta, come in una moderna azienda, da uffici che organizzano i diversi elementi della narrazione attraverso tecniche di marketing; ecco, in questo vortice di figure immaginarie, Wilcock costruisce una realtà che, per la sua capacità di allontanarsi radicalmente da quella che ci circonda, diviene strumento sovversivo di quest'ultima, conturbante forse proprio a causa di quella “felicità, vista l'insopprimibile presenza degli altri, che si può provare nel creare un mondo da cui scaturiscono le scienze e le arti fantastiche.”
Di questo atteggiamento si ricorderà Roberto Bolaño il quale, per quell'opera altrettanto conturbante   che è La letteratura nazista in America, costruirà, anch'egli attraverso una sorta di manuale di letteratura fantastico, un mondo immaginario e profondamente inquietante, sgradevole, che culminerà nella figura di Ramirez Hoffman, poeta torturatore nel Cile di Pinochet.