Con l'articolo di Nello Del Gatto, Non un Nobel politico, abbiamo avviato una discussione sull'assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Mo Yan. Il dibattito prosegue con questo nuovo articolo di Francesco Ursini.

L’annuncio del conferimento del premio Nobel per la letteratura a Mo Yan – iscritto al Partito Comunista Cinese, vicepresidente dell’Unione degli scrittori cinesi, vincitore del premio Mao Zedong – ha suscitato molte critiche da parte di connazionali dissidenti, e in generale è sembrata discutibile, a una parte dell’opinione pubblica occidentale, la scelta di premiare uno scrittore così apertamente organico, nei comportamenti pubblici non meno che nei ruoli ricoperti, a un regime autoritario. Se da un lato sarebbe fin troppo agevole eludere la questione ricordando che in passato scelte di segno opposto sono state oggetto di riserve affatto speculari, per le quali autori come Dario Fo o lo stesso Orhan Pamuk (premiato appena un anno dopo essere stato incriminato in patria per aver parlato del genocidio armeno) sarebbero stati scelti in virtù del loro impegno antisistema piuttosto che del valore della loro opera letteraria, dall’altro vale forse la pena di soffermarsi un momento a riflettere sui presupposti e le implicazioni di siffatte, legittime perplessità.
Esattamente dieci anni fa, Giovanni Raboni pubblicava sul Corriere della Sera un articolo, di cui all’epoca si è molto discusso, provocatoriamente intitolato «I grandi scrittori? Tutti di destra», nel quale richiamava l’attenzione su quella che definiva «una convinzione talmente diffusa e soprattutto, si direbbe, così profondamente radicata, da trasformarsi nell’immaginario collettivo in una sorta di luogo comune metastorico»: l’equivalenza, cioè, tra impegno letterario e appartenenza politica allo schieramento progressista, pregiudizio questo che sarebbe smentito dal fatto che «non pochi, anzi molti, anzi moltissimi tra i protagonisti o quanto meno tra le figure di maggior rilievo della letteratura del ’900 appartengono o sono comunque collegabili a una delle diverse culture di destra [...] che si sono intrecciate o contrastate o sono semplicemente coesistite nel corso del ventesimo secolo».
Certo non può sfuggire che nel caso delle critiche rivolte a Mo Yan non è in questione un’opzione ideologica, magari confinata nell’ambito della speculazione teoretica, bensì la responsabilità che un intellettuale si assume accettando di ricoprire un ruolo pubblico e scegliendo di adeguare i propri discorsi e le proprie dichiarazioni alle direttive imposte dalla propaganda di regime. Eppure non sembra irragionevole supporre che anche dietro a tali critiche possa agire un pregiudizio non dissimile, che trae forse origine dalla speciale sensibilità sviluppatasi nel mondo occidentale, a partire dalla metà del secolo scorso, a seguito delle immani tragedie causate dai regimi totalitari. È la sensibilità che ha portato ad esempio alcuni studiosi a negare che Virgilio fosse un poeta organico al regime augusteo, e a leggere l’Eneide ‘dalla parte di Turno’ (il nemico ucciso da Enea nell’ultima scena del poema: finale che sarebbe allora tutt’altro che trionfale); ed è difficile resistere alla tentazione di accostare a tali tentativi di ‘scagionare’ un sommo poeta del passato il pronostico formulato – sia pure in forma ipotetica – sull’ultimo Domenicale da Gian Carlo Calza, per il quale «ora si vedrà se [Mo Yan] vorrà usare l’enorme potere che il premio gli conferisce in modo differente».
Eppure non dovrebbe fare eccessiva difficoltà tenere separato il giudizio di valore su un’opera letteraria – esattamente come si farebbe, ad esempio, nel caso di una teoria scientifica – dalle valutazioni relative al profilo pubblico del suo autore in quanto intellettuale, e persino, fino a un certo punto, dal giudizio sulle idee espresse nell’opera stessa: per citare ancora le parole di Raboni, «il senso di un’opera letteraria» si decide e si manifesta «su un piano totalmente diverso da quello delle scelte di carattere ideologico e dei comportamenti di carattere politico. Tengo a precisare che non intendo affatto, con questo, pronunciarmi a favore dell’irresponsabilità civile dello scrittore (e, più in generale, dell’artista); al contrario, sono convinto che uno scrittore (un artista) debba rispondere delle idee che professa e degli atti che compie esattamente come ne risponde qualsiasi altro cittadino. Quello che voglio dire è semplicemente che le due sfere non coincidono necessariamente, anzi che molto spesso (per non dire il più delle volte) non coincidono».
Un’ovvia obiezione è quella per la quale nel conferire un riconoscimento importante non si dovrebbe fare una scelta soltanto di ‘convinzione’ (un grande scrittore va premiato indipendentemente da qualsiasi altra considerazione), ma anche di ‘responsabilità’ (bisogna tener conto del significato e delle conseguenze della decisione). Ma si tratta di un criterio che, se già di per sé appare controverso e comunque scivoloso, è ancor meno giustificato nel caso del Nobel, in presenza di un premio riservato specificamente all’impegno politico; né servirà ricordare che appena due anni fa il Nobel per la pace è stato assegnato, «per la sua lotta lunga e non violenta per i diritti umani fondamentali in Cina», allo scrittore dissidente Liu Xiaobo.