Il postino suona sempre due volte: la prima nell’aldiquà, l’altra nell’aldilà. L’epistolario postumo è un genere di gran moda, soprattutto in tempi recenti: in libreria proliferano lettere al marito morto; elegie per la madre defunta; missive al compagno scomparso. L’amore post mortem è l’ultima frontiera della letteratura autobiografica contemporanea: di solito si tratta di operine brevi, intime se non impudiche, commoventi ai limiti del patetico e informali, o meglio scritte in seconda persona singolare, rivolte a un confidenziale “tu”, con una vertiginosa sovrapposizione del lettore e del compianto cadavere.

Non a caso, precisano John e Yves Berger nel loro Rondò per Beverly, requiem in memoria della moglie e madre da poco deceduta: «Questo è un messaggio su di te rivolto al lettore. A te e su di te… E così, forse, il lettore può diventare te».
Il libriccino, pubblicato da nottetempo (pagg. 58, € 8,00), è uscito da qualche mese e quasi contemporaneamente a Breve come un sospiro, il «diario-romanzo» con cui «Anne Philipe si è rivelata come scrittrice nel 1963» in Francia e ora anche in Italia, grazie alle edizioni e/o (pagg. 122, € 12,00): qui vi si raccontano malattia e agonia del famoso consorte Gérard Philipe, stroncato a 36 anni, e all’apice della carriera, da un tumore. Anche Beverly Bancroft viene descritta in fase terminale e anche a lei viene rivolta, a mo’ di epitaffio, una citazione di Spinoza, forse il filosofo dei vedovi, sicuramente uno degli autori più cari a Berger, peraltro aduso e affezionato alle “storie di fantasmi”: quasi 10 anni fa, infatti, l’intellettuale inglese sfornava Qui dove ci incontriamo (uscito nel 2005 per i tipi di Bollati Boringhieri), una specie di auto-fiction in cui si imbatteva nel simulacro della madre morta e in altri adorati spettri.
Caposcuola dei moderni Orfei è stato senz’altro C.S. Lewis con il suo Diario di un dolore (Adelphi, 1990, ma pubblicato per la prima volta nel 1961), una chirurgica e straziante cronaca della vedovanza, cui idealmente seguono – per bontà letteraria e sobrietà – Lettera a D. di André Gorz (Sellerio, 2008) e un lungo capitolo di Livelli di vita di Julian Barnes (Einaudi, 2013). Persino Enzo Biagi si cimentò in questo genere intimistico, componendo una L__ettera d’amore a una ragazza di una volta (Bur, 2004), ovvero la moglie Lucia, sua compagna di vita per sessantadue anni. Tra gli esperimenti più pop, si potrebbero poi annoverare Quando leggerai questa lettera di Vicente Gramaje (Longanesi, 2014) e Le parole che non ti ho detto di Nicholas Sparks (Frassinelli, 1998), entrambi su misteriose lettere d’addio e messaggi in bottiglia riemersi dal passato. L’escamotage epistolare funziona, tanto che ai bestseller seguono i blockbuster cinematografici, non solo nel caso di Sparks ma pure in quello meno noto di Incendiary di Chris Cleave (Frassinelli, 2005), passato in pellicola con il titolo Senza apparente motivo: una lunga invettiva inviata per corrispondenza a Osama Bin Laden da una madre in lutto per il figlio ammazzato in un attentato terroristico.
Non sempre si scende all’inferno per rivedere Euridice: c’è chi vi cerca, ad esempio, gli antichi maestri, come ha fatto Andrea Bajani in Mi riconosci (Feltrinelli, 2013), un sentito omaggio al “padre letterario” Antonio Tabucchi. Infine, e per contro, sono numerose e amare le epistole dei figli illustri agli illustri sconosciuti genitori: da quelle di Kafka e Leopardi ai rispettivi padri, tra l’altro mai recapitate, a quelle di Simenon e Wolfson alle reciproche madri, sbozzate con livore al loro capezzale in ospedale. Evidentemente i “poeti laureati” sanno scrivere solo lettere di disamore.