Si sentiva un «conservatore in un paese in cui non c’è nulla da conservare», un paese in cui «non c’è nulla: né destra, né sinistra. Qui si vive alla giornata, fra l’acqua santa e l’acqua minerale»: ecco un perspicuo autoritratto di Leo Longanesi, un borghese corsaro tra fascismo e Repubblica, così come lo racconta lo storico Raffaele Liucci in una agile ma ricchissima biografia, appena edita da Carocci (pagg. 174, € 16,00).

Non fu solo aforista muriatico Leopoldo, in arte Leo, nato a Bagnacavallo, in Romagna, nel 1905, e prematuramente morto a Milano, sua città adottiva amata e odiata, nel 1957: fu giornalista, scrittore, editore, pittore, illustratore; insomma, «uno dei personaggi più originali e poliedrici dell’Italia novecentesca», con un piede però ben piantato nell’Ottocento delle vecchie zie, più ideale che reale.

Sulla scorta di carteggi, diari e altri documenti inediti, l’autore è consapevole che «descrivere la vita di Longanesi equivale a ripercorrere la storia delle vicende politiche, letterarie e artistiche d’Italia», dal fascismo agli anni Cinquanta, dal regime alla «memoria indulgente» nei confronti del duce, dalla Resistenza «di una minoranza» alla «desistenza» della maggioranza, grigia e silenziosa come il lungo dopoguerra democristiano.

Nell’anno in cui ricorrono i settant’anni dalla fondazione della casa editrice Longanesi (mentre nel 2017 ne saranno trascorsi sessanta dalla morte del suo fondatore), Liucci sbozza un ritratto puntuto, per nulla agiografico, di uno dei protagonisti e fautori della «grande trasformazione» della carta stampata nostrana: Leo, infatti, fondò e diresse alcuni dei più influenti giornali dell’epoca, dall’“Italiano” (1926-1942), «il Foglio quindicinale della gente fascista», a “Omnibus” (1937-1939), rivista politicamente integrata ma culturalmente frondista, e infatti fu chiusa dopo soli due anni; da “Il Libraio” (1946-1949) a “il Borghese” (1950-1957), il più diretto concorrente de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, affidato, dopo il 1957, al neofascista Mario Tedeschi, che gli impose una linea più bellicosa e meno letteraria.

Quattro, secondo l’autore, sono «gli elementi dell’“ideologia” longanesiana: un diffuso sentire nostalgico; l’adesione sentimentale all’anarchismo nostrano; l’autentico orrore per la democrazia; la teorizzazione di una nuova grande destra». Leo sognava una «destra carsica», «psicologica» e antieconomica, un remake della «destra storica» e anticlericale di Porta Pia, una destra antiamericana e antimodernista, ma soprattutto anticonformista e «apota», cioè scettica, «che non se la beve», stando al neologismo coniato nel ’22 da Prezzolini.

Longanesi era un convinto «anti-antifascista», e sempre si batté contro «il fascismo degli antifascisti»: nel 1950, ad esempio, su “il Borghese” si leggeva: «Dilagano in Italia tre diverse specie di paura: quella di sembrare fascisti, quella di non sembrare abbastanza fascisti e quella di non essere antifascisti del tutto... Non resta, allora, che accettare, una volta per tutte, il fascismo come una esperienza storica da mettere in disparte. Ma quel che ci divide da molti, è la scelta del luogo nel quale collocare questa esperienza: noi suggeriamo il museo, altri la galera».

Amante della pars destruens, Leo era per natura un Bartleby, un bastiancontrario: «Il suo partito preferito era il POP: Partito di opposizione permanente». Grazie alla sua penna luciferina e raffinatissima, fu maestro di «cinismo estetizzante, ossia la tendenza a confondere sempre il piano etico-politico con quello estetico», come si evince da alcuni suoi celebri bon mot: «La libertà tende all’obesità»; «La democrazia è una scusa per fondare giornali»; «La repubblica è fatta, bisogna compatirla».

Ampio spazio nel saggio è dedicato pure ai sodali ed epigoni di Leo, da Giuseppe Prezzolini e Giovanni Ansaldo a Indro Montanelli, il suo «più degno erede», di cui Liucci aveva precedentemente curato, insieme a Sandro Gerbi, una biografia in due tomi: Lo stregone, del 2006, e L’anarchico borghese, del 2009, ora riuniti in un unico volume per i tipi di Hoepli. La tesi dell’autore è che la montanelliana Storia d’Italia sia, sotto sotto, longanesiana poiché in essa, in più punti e «a tratti, riluce l’insegnamento del maestro».

E dell’affettuoso e contrastato rapporto tra modello e copie, vecchio e giovani, gronda tutto il libro di Carocci, quasi che Liucci, con questo, abbia voluto rendere omaggio a uno degli Antichi Maestri (© Thomas Bernhard) del suo personalissimo pantheon. La bontà del suo lavoro è che riesce a sedurre anche il lettore radical chic, convincendolo «che i conservatori, o addirittura i reazionari, sono quasi sempre più perspicui e acuminati dei loro colleghi progressisti, accecati dal bagliore dell’ottimismo. Chi non nutre alcuna speranza di guarigione affonda meglio il bisturi nel corpo dissanguato». Fine dell’autopsia, per brevità chiamata biografia.