Non sarebbe di certo un gesto peregrino riconoscere, nella morte che Leopoldo Lugones scelse per sé nel 1938, attraverso l’ingestione di una dose di cianuro, il materializzarsi della fine che un anonimo abitante della città di Gomorra, ormai consapevole che la pioggia di fuoco non gli avrebbe lasciato alcuno scampo, impone a sé stesso nell’ultima riga di uno dei suoi racconti più impressionanti, La pioggia di fuoco, irrimediabilmente sprofondato nel disastro che la sua città e la sua vita hanno dovuto subire, senza che una scaturigine divina venga anche solo per un istante accennata, senza nemmeno un accenno al funesto demiurgo delle mitologie gnostiche; un movimento, quindi, che stendendo il potere del nichilismo sulla storia biblica, estromette ogni senso dall’orizzonte dell’umano, rendendo il gesto dell’anonimo personaggio (e di Lugones), una lieve, piccola increspatura affiorata dal nulla imperante.

E se è vero che il gomorreo suicida è figura del destino scelto da Lugones, l’intreccio fra questa finzione e quella realtà sarebbe locus ideale di un certo tipo di modernismo incline all’elisione della mediazione a favore di una penetrazione diretta della vita da parte dell’arte, quella penetrazione che l’espressionismo, ad esempio, tenta come sollecitazione diretta dei nervi, come assalto allo spirito del lettore. Ma la strada che Lugones tenta è differente, anche perché, ineludibile, è il retaggio col quale la fin de siècle plasma la sua visione.

Le forze misteriose, la silloge di cui fa parte il racconto prima citato (uscita da poco presso i tipi di Lindau nella traduzione di Francesco Verde), esprime perfettamente la cifra di questo scrittore ammirato da Borges: «se dovessimo compendiare in una persona sola tutto il corso della letteratura argentina, quella persona sarebbe indiscutibilmente Leopoldo Lugones».

Attraverso il ponte, sontuosamente demodé, del racconto fantastico, Lugones mette in atto un meccanismo letterario nel quale un pitagorismo preciso e tortuoso, mutuato, probabilmente, dall’affiliazione massonica cui si sottopose nel 1889, sgocciola la propria essenza misteriosa in ambientazioni consuete e ordinarie; figure di inventori o bizzarri, assai più affini a quel tipo di scienziato che prima dell’affermazione del modello galileiano il XVI secolo espresse in figure sfolgoranti  come quella di Tycho Brahe, si aggirano per le strade di Buenos Aires nei primi anni del XX secolo, divorati dall’ansia febbrile che l’intuizione trasmette loro, alla ricerca spasmodica di un rapporto universale che possa svelare la misteriosa analogia cui ogni elemento è legato. È l’armonia pitagorica, si diceva, la quale attraverso un movimento analogico sempre più ampio, come cerchi concentrici, si spande al cosmo intero, stabilendo così un’equazione fra il fenomeno infinitesimo e quello macrocosmico che la percezione di uno spazio discreto, frammentato, irrimediabilmente elide; è la ricerca, in altre parole, di quell’anima mundi la quale impedisce a ciò che ci circonda di esibire spazio che sia vacuo o parcellizzato, e che si plasma nella figura di Juan, ossessionato dalla metamusica, o in quella del Dott. Paulin, il cui fine è quello di liquefare il pensiero.

Ma in Lugones la consapevolezza della dissonanza che il quinto martello diffonde nella ricerca d’armonia risulta chiara e acuta: è la Hybris, infatti, l’ignorare la giustezza del limite, che spinge questi ricercatori verso la follia o la morte; l’avventurarsi in territori pericolosi e sconosciuti, infatti, condanna a una fine atroce come quella del protagonista de La forza Omega, il cui tentativo di trovare alla radice del suono vera e propria energia cinetica lo conduce a morte terribile, col cervello spappolato sul muro.

Ma Le forze misteriose è anche lo scenario di un’antichità ricreata attraverso una fantasia curiosa ed erudita; un’antichità morbosa un po’ alla Schwob ma anche, per i sottintesi esoterici, alla Schuré, tendenza di cui il racconto citato all’inizio è un esempio, assieme a quello, straordinario per la limpidezza preraffaelita da Novellino, intitolato La statua di sale, dove tuttavia il non detto dell’ultima pagina apre una quinta certamente melodrammatica, ma altrettanto certamente efficace e originale; ovvero quello, intitolato L’origine del diluvio, nel quale attraverso un medium una voce spettrale rievoca un’antichità preumana vertiginosa, intrisa anch’essa di quella teosofia nella quale molti autori, nel primo scorcio del XX secolo, videro un’alternativa al positivismo imperante.

Forse Borges ebbe ragione, quando di Lugones scrisse che era «un uomo cui interessa un solo problema cui trova, nel corso del tempo, soluzioni contraddittorie»; è innegabile, tuttavia, che quando questa soluzione è forte e indipendente, il risultato è un piccolo capolavoro, unico nella sua capacità di equilibrare mito e Angst contemporanea, come I cavalli di Abdera, nel quale l’atmosfera sospesa e ambigua crea un movimento onirico speciale, capace di passare dal tono svagato e gradevole dell’incipit all’orrore puro e terrificante, prima che la teofania finale non sciolga definitivamente la tensione.

Leopoldo Lugones, Le forze misteriose, Edizioni Lindau, 2017, pp. 136

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