Se sono noti gli articoli dalla Spagna di Montanelli, soprattutto quello sulla battaglia di Santander che gli costò il rimpatrio e la sospensione dal Partito Fascista per aver ingiuriato l’onore delle Forze armate, meno conosciute, se non del tutto inedite, sono le sue frequentazioni con gli intellettuali del periodo, in primis con il poeta andaluso Federico García Lorca. Svela scenari del tutto sconosciuti un bel saggio dell’ispanista Gabriele Morelli nella rivista “Il confronto letterario”. In un articolo dedicato a Salvador Dalí del 3 agosto 1951 uscito sul “Nuovo Corriere della Sera”, Morelli recupera un passo di Montanelli in cui dichiara di aver incontrato il poeta spagnolo a Madrid nella primavera del 1935 (o forse del 34, le fonti discordano), attratto dalla fama della sua opera ma anche dalla leggenda gitana che lo avvolgeva. L’incontro non dovette però esaltarlo a giudicare dal resoconto che ne fa:

“García Lorca non era quel bellissimo uomo che poi si è detto. Di media statura, di lineamenti piuttosto rozzi e pesanti, di fronte convessa, di folti neri e lisci capelli, tre sole cose aveva stupende: lo sguardo luminoso, la risata di bambino, e la voce, la cui baritonale e calda gravità ricordava il Cante Jondo che trema, come un accompagnamento di chitarra nei suoi poemi. «Tiene ángel», dicevano di lui i suoi amici, ha dell’angelo. E cominciò ad averlo davvero, dell’angelo, quando nel corso della conversazione cadde, non ricordo se per mia o sua iniziativa, il nome di Dalí. Allora García, sino a quel momento distratto e un poco, forse, annoiato della mia presenza, si animò d’improvviso; e, aperto un cassetto, ne estrasse, per mostrameli, i disegni che il suo meraviglioso amico, come lui lo chiamava, gli aveva mandato da Cadaqués”.

Montanelli si aspettava evidentemente di trovare un bel giovane, così come lo ritraeva la voce popolare, ma soprattutto un poeta eponimo dell’Andalusia. Gli interessava infatti intavolare una discussione - o meglio realizzare un’intervista - con Lorca su quanto la sua terra natale avesse influito sulla sua opera letteraria, ma la reazione del poeta fu gelida. Ce lo testimonia Montanelli stesso in un articolo successivo, apparso il 4 settembre 1951 sempre nel “Nuovo Corriere della Sera”:

“Non sono io a dirlo; lo disse lui stesso a me, il giorno che andai a trovarlo e a manifestargli la mia ammirazione per quanto, di cui, avevo letto. Forse gliela espressi in modo molto malaccorto; ma fatto sia che si oscurò in viso e mi chiese con una venatura di sarcasmo se veramente mi sembrava viva e vera l’Andalusia delle sue Canciones [...]. In quel momento - era il ’34 - con l’Andalusia l’andaluso Lorca sembrava disgustato e in polemica. Mi parlò con entusiasmo della Castiglia e mi disse che intendeva restarvi per sempre, come Lope de Vega, in una casa con un giardino dove non ci fossero che due alberi, un rivolo d’acqua e otto fiori. Allora non capii bene che significato avesse tutto questo. Poi mi si è fatto chiaro poco a poco, sempre più chiaro. Lorca, almeno negli ultimi anni della sua vita, sentì tutto il pericolo di lasciare le briglie sul collo alla sua vena andalusa, e cercò di metterle addosso un castigliano cilicio. Voleva castigarla. Il suo ideale, in quel momento, sembrava essere addirittura Seneca, e forse egli credeva in buona fede di esserlo. Per questo era tornato con più fervore di prima e nonostante le delusioni subito, al teatro, che fu la sua ambizione sbagliata.”

Un insieme di incomprensioni, insomma, che non permisero da un lato a Montanelli di strappare un’intervista a García Lorca, dall’altro all’Italia di avere una testimonianza esclusiva del grande poeta spagnolo realizzata proprio da uno dei principi del giornalismo nostrano.