Si esce straniti dalla mostra fotografica di Gianni Berengo Gardin sulle Grandi Navi a Venezia, allestita nello storico negozio Olivetti (ora in concessione al Fai) sotto i portici delle Procuratie Vecchie di Piazza San Marco.

Sia chiaro: Berengo Gardin non è uno «sfigato», come l'ha battezzato Luigi Brugnaro, l’attuale sindaco dall’eloquio campagnolo e dalla sintassi zoppicante. Berengo Gardin è un maestro che onora l’Italia e le sue ventisette foto in bianco e nero – scattate senza il trucco del teleobbiettivo – sono assai evocative. Però non si comprende come mai Brugnaro abbia censurato l’esposizione, in origine prevista a Palazzo Ducale. Quelle foto, infatti, non svelano nulla di nuovo. Basta spostarsi di qualche decina di metri, per assistere dal vivo all’«inchino» di mostri meccanici grandi tre volte il Titanic, lanciati lungo canali nati per accogliere bragozzi.

«Vederli passare», ha dichiarato l’architetto Antonio Foscari, «è come assistere allo stupro di una giovane donna: una scena di una volgarità e prepotenza da lasciar sbalorditi». Brugnaro non è d’accordo, le foto di Berengo Gardin alimenterebbero un’immagine negativa della città: «a me le Grandi Navi piacciono, ne sono orgoglioso, sono il simbolo di Venezia». Per l’antropologo Marino Niola, quei condomini galleggianti rappresentano invece «la metafora più profonda di un Paese che confonde il business turistico con la svendita della sua grande bellezza».

Forse non è un caso che né il sindaco né i dodici assessori della sua giunta siano veneziani, ma risiedano tutti in terraferma. Nessuno di loro, probabilmente, ha mai ‘vissuto’ Venezia. Viverla significa ammirarla all’alba, quando i palazzi si rispecchiano sull’acqua piatta, non ancora screziata dal moto ondoso. Viverla significa esplorarne le calli più remote, nel silenzio delle pietre. Solo vivendola, si capirà perché questa città non potrà mai essere assimilata alla modernità dei capannoni, dei centri commerciali e delle villette a schiera, imperante in terraferma.

Il negozio Olivetti, progettato nel 1958 da Carlo Scarpa, riluce di un’algida bellezza. Un esempio di come la buona architettura novecentesca non offenda la tradizione veneziana. Le sue pareti ovattano il rumore di fondo della città consunta: lo spopolamento irreversibile; le botteghe storiche spazzate via dalle rivendite di chincaglieria cinese; la grande industria dei Bed & Breakfast più o meno clandestini e delle camere affittate in nero; la «masnada di locuste impazzite», bramose di trasformare l’ex Serenissima in «un incrocio fra Las Vegas e Disneyland» (Indro Montanelli); il Mose, «un’idiozia che costa miliardi», come denunciò una profetica copertina del settimanale economico «Il Mondo» nel lontano 1991; lo smantellamento di Porto Marghera; calli e campielli invasi da milioni di turisti in canottiera che urinano, defecano e fanno sesso a cielo aperto; il «giglio magico» del pluricondannato Gianni De Michelis riciclatosi, vent’anni dopo, all’ombra della «cricca del Mose»; i veneziani conniventi e quelli che resistono; un’intera classe dirigente colpita al cuore dalla «retata storica» del 4 giugno 2014; l’erosione della laguna, destinata a diventare un braccio di mare; gli industriali, i costruttori, le cooperative, gli uomini delle banche e della finanza, gli amministratori pubblici, i «dogi alle vongole», la Curia, gli enti culturali, gli editori, i tecnici, gli ingegneri, le migliaia di cittadini che hanno tratto benefici dal «sistema Mose»; un antico sindaco filosofo, lugubre e sdegnoso; un nuovo sindaco che, per risanare il bilancio del Comune, vorrebbe vendere i quadri di Klimt e Chagall, da lui declassati a «modernariato».

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