Era il grande favorito nei sondaggi e ha confermato le previsioni: The shape of water di Guillermo Del Toro si è aggiudicato il premio per il miglior film nella novantesima edizione degli Oscar, ed è anche il film che ha raccolto più premi (per la regia, la colonna sonora e per le straordinariamente accurate scenografie).

Una storia di riscatto e di accoglienza, di riconoscimento della diversità e di affermazione della propria dignità, in cui i protagonisti sono una donna delle pulizie orfana e muta, una misteriosa creatura anfibia, un artista gay discriminato, in un’America in piena guerra fredda nella quale i neri sono trattati alla stregua di creature aliene prive uno status pienamente umano. Un’edizione questa che ha premiato la diversità anche nell’assegnare il premio per il miglior film straniero ad A fantastic woman del cileno Sebastian Lelio, in cui l’attrice transessuale Daniela Vega nel ruolo di una donna trans affronta le difficoltà, i sospetti e l’ostracismo dell’ambiente che la circonda dopo la morte del suo amante.

Il film Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, che racconta la scoperta e l’accettazione di un amore omosessuale, ha fatto ottenere a James Ivory la statuetta per la sceneggiatura non originale, mentre è ancora una bambina che non può parlare la protagonista di The silent child di Chris Overton, che ha ottenuto il riconoscimento per il miglior cortometraggio. Il razzismo è un tema forte dell’inquietante horror Get out, per il quale Jordan Peele ha ricevuto il riconoscimento per la migliore sceneggiatura originale. Frances McDormand, miglior attrice protagonista per Three billboards outside Ebbing, Missouri di Martin McDonagh (film che si è aggiudicato anche il premio per il miglior attore non protagonista a Sam Rockwell), nell’accettare il premio ha invitato tutte le donne che hanno ricevuto una nomination ad alzarsi con lei, e ha fatto un esplicito appello per l’inclusive rider, una clausola sulla quale un attore può insistere affinché si rispettata la parità etnica e di genere nel cast e in tutti coloro che lavorano per un film. L’Oscar come miglior attore protagonista è andato a Gary Oldman per la sua interpretazione di Winston Churchill in The darkest hour di Joe Wright, mentre quello per la fotografia a Roger Deakins per Blade runner 2049.

Un’edizione, questa, segnata dall’assenza di uno dei grandi protagonisti del movie system, Harvey Weinstein, travolto dagli scandali sessuali, la cui società è stata appena rilevata da una squadra formata in gran parte da donne; e oltre a Frances McDormand sono stati molti gli attori che nel corso della cerimonia hanno fatto riferimento esplicito alle istanze dei movimenti #metoo e Time out, fra tutti Annabella Sciorra, Ashley Judd e Salma Hayek. Così come molti sono stati i riferimenti al tema dell’immigrazione: dagli attori Kumail Nanjiani a Lupita Nyong’o al regista Del Toro che ci ha tenuto a sottolineare di essere un immigrato, ricordando come, quando era in Messico, non avrebbe mai pensato di potercela fare.

Del resto nel corso della sua ormai novantennale storia il premio Oscar ha sempre in qualche modo dato conto delle evoluzioni della società e del costume, delle vicende politiche, delle istanze artistiche e dei mutamenti espressivi e tecnici che di volta in volta hanno segnato i diversi momenti, a partire dal quel lontano 16 maggio 1929, quando il presidente dell’Academy of motion picture arts and sciences (AMPAS), Douglas Fairbanks, e il direttore William C. DeMille, assegnarono in un evento privato le prime statuette per la produzione della stagione 1927-28. Lo ha fatto nelle scelte, sempre discusse e spesso contestate, dei film da premiare, o attraverso la ‘non-scelta’ (leggendarie alcune grandi esclusioni dagli Oscar), attraverso il modo in cui si sono svolte le cerimonie di assegnazione e per come, in alcune occasioni, l’assegnazione del premio è stata utilizzata per accendere i riflettori su temi scomodi. Come quando nel 1973 Marlon Brando, che aveva vinto il premio per la sua interpretazione in Il padrino, rifiutò il premio e mandò al suo posto l’attrice e attivista Sacheen Littlefeather a spiegarne la motivazione, ovvero il trattamento che ricevevano i nativi americani nell’industria cinematografica; qualcosa di simile fecero anche Susan Sarandon, Tim Robbins e Richard Gere nel 1993 attirando l’attenzione sugli haitiani sieropositivi e sul Tibet.

Trasformatosi nel tempo da evento ristretto a evento mediatico e ricco di glamour, ampliate le categorie dei premi in conformità con l’evoluzione del modo di fare cinema, l’Oscar si è affermato come simbolo morale e materiale dell’industria hollywoodiana, con un occhio sempre attento all’aspetto commerciale e industriale, privilegiando spesso i kolossal e il box office. Nel tempo si sono stabilizzati i criteri di selezione e grande rilevanza hanno assunto le nominations, in quanto riconoscimento professionale assegnato da ‘addetti ai lavori’ dello stesso settore dei candidati. Le nuove sensibilità, per temi e tecniche, hanno cominciato a farsi strada con fatica negli anni Sessanta, spesso attraverso le ‘candidature minori’, guadagnandosi spazio a partire dal decennio successivo, con il merito di portare al grande pubblico temi di attualità e di forte impatto (come la guerra in Vietnam, lo scandalo Watergate, i rapporti con il potere) senza rinunciare a realizzare film spettacolari e coinvolgenti.

L’edizione di quest’anno, pur con tutti i limiti imposti dalla storia e dalla natura del premio, sembra aver voluto dare in qualche modo un segnale, interrogandosi anche sulle responsabilità dell’industria cinematografica; resta da vedere se si tradurrà nel tempo in una maggiore e  programmatica apertura verso tematiche e produzioni meno convenzionali.

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