La Siria era ancora sotto il dominio ottomano, tra Damasco e Aleppo scorrazzavano i beduini, quei predoni del deserto tanto cari a Lawrence d’Arabia, ma nessuno si azzardava a demolire i templi di Palmira, che già allora, tra fine Ottocento e primi del Novecento, incantavano i rari viaggiatori occidentali. Uno di questi era l’inglese Sir Mark Sykes, poi passato alla storia insieme al francese François Georges-Picot come l’artefice di quel famoso, o meglio famigerato, accordo che nel 1916 segnò la spartizione del Medio Oriente tra impero britannico, Francia e Russia. Una linea tracciata nella sabbia, dal Mediterraneo al Golfo Persico, sulla testa dei popoli interessati: ancora adesso, a distanza di un secolo, ne scontiamo le conseguenze.

In una delle sue missioni come attaché dell’ambasciata inglese a Costantinopoli, nel 1902, Sykes attraversa dieci delle province asiatiche della Turchia, annotando scrupolosamente impressioni, luoghi, incontri, avventure e disavventure, grandezza e barbarie delle tribù nomadi. Dar-Ul-Islam, la Casa dell’Islam, è il titolo che sceglierà per questo diario di viaggio, pubblicato a Londra tre anni dopo. Uno dei primi tentativi di spiegare il mondo musulmano a un pubblico europeo, secondo i parametri culturali dell’epoca e con la giusta dose di humour britannico: “Una volta che l’Islam viene inculcato in un individuo – vi si legge tra l’altro – rende la sua mente inservibile per ogni altra religione… Come teologi e manipolatori di parole (gli islamici) non hanno niente da invidiare a uno scolastico del tredicesimo secolo; e se uno mai tentasse di fargli notare le assurdità contenute nel Corano cambierebbero subito le carte in tavola”. Tra le pagine più suggestive del libro c’è appunto il resoconto della visita a Palmira. Ecco come la descrive il baronetto inglese: “Vista dall’alto Palmira sembra una scatola di costruzioni sparpagliata sul pavimento da un bambino; più in là, si allarga la distesa smisurata del deserto, con una desolata bruttezza che impressiona, e la città appare come un fragile labirinto abbandonato, effimero e scadente di fronte a quell’eterna grandezza. A oriente, vediamo le nere tende dei Beduini; i palazzi e i templi sono in macerie, ma le tende e il deserto rimangono”. Se sostituiamo alle tende le bandiere (nere anch’esse) dell’Isis, la carrellata è di un’attualità impressionante. Ma più ancora colpisce la chiosa di Sykes: “La bellezza di Palmira è la sua solitudine: la grande città un tempo rumorosa e fiera della propria ricchezza, crollata e deserta, le colonnate corrose dalla sabbia, i templi in frantumi, i sepolcri diroccati, in sé poco attraenti, sono stati abbelliti dalla decadenza, e resi commoventi dall’abbandono e dal silenzio”. Parole che a un lettore di oggi mettono i brividi.