«Le parole sono importanti» diceva Nanni Moretti, e come dargli torto? E, oggi più che mai, in epoca di pandemia, non ci resta che affidarsi a loro, alle parole. Descrivono, raccontano, spiegano, sono balsamo per il cuore e per la mente.

Eppure tutto ciò – oggi – sembra in grave difficoltà. Se da un lato ci si rifugia nella parola come luogo ultimo nel quale trovare conforto e sapere, tutto il settore sta conoscendo una vera crisi. Le librerie sono chiuse, le uscite dei libri sono rinviate a un domani ancora incerto, il settore editoriale e quello culturale sono quasi schiacciati da una informazione veloce, social e globale. Insomma, quella che poteva essere ‒ pur nella sua tragicità ‒ un’opportunità, si sta trasformando velocemente in un boomerang. Così alle prime entusiastiche affermazioni “avrete più tempo per leggere” sono seguite, subito dopo, notizie di un bilancio sempre più in rosso, in particolare per le librerie. A Milano, ad esempio, il calo delle vendite è già intorno al 55%, mentre in tutta Italia siamo a – 23%. Presentazioni annullate, fiere ed eventi cancellati, difficoltà negli spostamenti fanno vendere meno libri. Banalmente. Un calo che arriva dopo che il 2019 si era chiuso con una ripresa del fatturato del 4%. E purtroppo non ci fermiamo qui.

Si calcola, infatti, che nel 2020 18.600 titoli non vedranno la luce, quasi 40 milioni di copie non saranno stampate e 2.500 titoli non saranno tradotti. Dati che lasciano ben poche speranze per i mesi a venire: le case editrici hanno drasticamente ridimensionato le loro iniziative. I piani editoriali sono stati rivisti e le novità saranno diminuite del 25%, mentre il 61% ha già fatto ricorso alla cassa integrazione, o lo farà a breve (fonte AIE, Associazione Italiana Editori). Le ricadute economiche su tutto il settore dell’editoria sono state affrontate anche dal governo con misure ad hoc a sostegno di operatori, lavoratori ed esercenti. Eppure qualcosa manca. Manca una riflessione su ciò che può diventare il nostro rapporto con la parola scritta.

Cosa resterà, dopo il Coronavirus, del nostro rapporto con l’oggetto libro, con la lettura, con la riflessione e la lentezza del momento? Davvero siamo destinati a fruire, spesso passivamente, di informazione, cultura, sapere solo attraverso strumenti digitali? Probabilmente è troppo presto per saperlo, così immersi nel momento…eppure piccole prove di resistenza e resilienza si fanno largo nel clima di incertezza legato al futuro. C’è la Libreria del Golem di Torino che ha deciso di opporsi alla paura da Coronavirus e fa consegna a casa. Il proprietario, Mattia, accetta ordini attraverso Instagram e ‒ in sella alla sua bicicletta ‒ arriva direttamente alla porta di chi ha effettuato l’ordine. Un mezzo social per tenere viva la fiammella del sapere. Così come fatto con le tante iniziative raccolte sotto l’hashtag #iorestoacasaleggere, o la lettura via Facebook di libri proposta da alcune piccole case editrici. Non sappiamo se questa possa essere la risposta o anche solo una risposta. Una riflessione sul nostro rapporto con la parola scritta, con la cultura più in generale va fatt. Forse bisogna ri-leggere il valore stesso che diamo al settore culturale perché la crisi scatenata dalla pandemia si trasformi davvero in un mezzo che rilanci il significato intimo (e più ampio) che diamo alla parola. Passando anche da una valorizzazione del significato stesso della parola cultura. Per non perdere l’abitudine di sfogliare un libro, entrare in una libreria o regalare una poesia.

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