La discussione intorno all’esistenza di realtà oggettive indipendenti da coloro che ne fanno l’oggetto delle proprie osservazioni e riflessioni – centrale nel dibattito filosofico degli ultimi decenni – ha avuto ed ha tuttora un corrispettivo piuttosto preciso nel campo dell’interpretazione dei testi letterari. Esemplare, a questo proposito, il caso dell’applicazione alla critica letteraria del metodo e dei principi della decostruzione: è allo stesso Derrida che si deve l’idea dell’equivocità del linguaggio, per la quale qualsiasi testo, e soprattutto un testo scritto, è sempre passibile di essere interpretato in modi diversi e di essere frainteso nel suo contrario, tanto che il suo significato non può mai essere definito una volta per tutte.
Anche lasciando da parte le formulazioni più estreme, la molteplicità delle interpretazioni che di uno stesso testo vengono date nelle diverse epoche, nelle differenti realtà geografiche e, naturalmente, nelle innumerevoli letture individuali è sempre più spesso intesa come diretta conseguenza di una originaria, sostanziale ambiguità – si vorrebbe dire in-significanza – del testo in sé, il cui significato sarebbe definito di volta in volta dal contesto di lettura (“il testo è il contesto”) e/o dalla personalità del lettore contingente (“l’autore è il lettore”), in quella che è stata efficacemente definita come “la Babele delle interpretazioni”.
Se tuttavia ogni interpretazione è possibile, legittima tanto quanto qualsiasi altra, e comunque non verificabile sul testo perché quest’ultimo in realtà non esiste al di fuori dello ‘sguardo’ del lettore (che, quindi, lo pre-giudica in partenza), che senso ha, allora, continuare ad interpretare i testi? Se le cose stanno davvero così, non si può fare altro che arrendersi di fronte all’anarchia delle diverse interpretazioni e – di conseguenza – alla loro incomunicabilità e sostanziale irrilevanza al di fuori di una prospettiva strettamente storica (volta cioè allo studio dei diversi modi nei quali un testo è stato recepito in tempi e luoghi differenti).
Di fronte a tale impasse, credo che oggi sia divenuto urgente un ritorno – per così dire – ai fondamentali: il recupero, cioè, di alcune categorie elaborate dall’ermeneutica del Novecento che, lungi dall’esaurire la sterminata problematica epistemologica legata alle forme e ai metodi dell’interpretazione, rimangono tuttavia un irrinunciabile punto di partenza. Non sarà quindi inopportuno ricordare che un prodotto letterario, al pari di qualsiasi testo, è innanzitutto un atto comunicativo con il quale l’autore intende – appunto – comunicare qualcosa: esiste, dunque, una originaria volontà autoriale (intentio auctoris) che certo non esaurisce il senso di un’opera – un testo ovviamente può dire molto di più di quanto l’autore si era riproposto di comunicare (ad es. della sua personalità, della sua cultura, della sua epoca) –, ma della quale occorre tenere conto per poterla comprendere. Per ricostruire l’intentio auctoris non è indispensabile, peraltro, ricorrere a materiale esterno al testo (come eventuali fonti autobiografiche o dichiarazioni di poetica), perché è innanzitutto il testo stesso, se bene inteso, a rivelare – ora più, ora meno esplicitamente – il proprio programma, tanto che c’è chi ha parlato, in alternativa, di intentio operis.
È chiaro, d’altra parte, che la ricchezza dei significati, delle suggestioni e delle implicazioni propria in particolare di un testo letterario non può in alcun modo venire ridotta alla semplice esecuzione di un programma prestabilito, né il compito del critico alla ricostruzione indiziaria di tale programma. È opportuno tuttavia distinguere, recuperando magari la nota formulazione di Eric D. Hirsch (Validity in Interpretation, 1967; trad. it. Teoria dell’interpretazione e critica letteraria, 1973), tra il meaning di un’opera, che costituisce l’oggetto dell’interpretazione, e la sua significance, che è l’oggetto della critica: “Troppo spesso si ignora questa distinzione: significato è ciò che è rappresentato da un testo, è ciò che l’autore ha voluto significare mediante una particolare sequenza di segni, è ciò che rappresentano i segni; significanza indica invece un rapporto tra quel significato e una persona o una concezione o una situazione o qualunque cosa si possa immaginare”.
La ricostruzione della volontà autoriale è da considerare alla stregua di una disciplina scientifica nel senso popperiano del termine, dal momento che i suoi risultati sono sempre teoricamente falsificabili: di fronte a una determinata interpretazione possono infatti emergere in qualsiasi momento, all’interno o al di fuori del testo, elementi che dimostrino inconfutabilmente che essa è errata, come ad esempio nel caso di una poesia ritenuta allusiva agli eventi della seconda guerra mondiale, della quale si ritrovi poi un autografo datato 1935. Assai più libero è, ovviamente, il versante della critica, ma anche quest’ultima non può esercitarsi in assenza di qualsiasi limite o criterio. È ancora Hirsch a venirci incontro con la duplice distinzione tra critica intrinseca – tesa a stabilire la rispondenza tra progetto ed esecuzione – e critica estrinseca – volta invece alla valutazione del progetto –, e tra critica estrinseca appropriata – che valuta i valori e gli obiettivi dell’autore in modo diverso dall’autore stesso – e critica estrinseca inappropriata – che valuta in base a valori e obiettivi diversi da quelli dell’autore. Criticare un romanzo fantastico perché poco realistico, ad esempio, sarebbe un caso di critica (estrinseca) inappropriata: può sembrare ovvio, ma in realtà – a livelli meno immediati – si tratta di un errore di prospettiva piuttosto frequente.
Eppure – si dirà – di fronte a un testo, il critico non è libero, in definitiva, di darne una propria lettura originale che possa a limite prescindere completamente dal progetto dell’opera e dalla volontà dell’autore? Certamente lo è – ed è quanto ha fatto molta critica novecentesca, con esiti peraltro di notevole interesse e originalità –, ma tale attività non rientra più nell’ambito dell’interpretazione, né in quello della critica, bensì in quello dell’uso (distinzione, quest’ultima, su cui ha insistito molto Umberto Eco): uno studioso, va da sé, è pienamente legittimato, al pari di qualsiasi lettore, a ‘usare’ un testo nel modo che preferisce, ad esempio per verificare o dimostrare la validità di una teoria, di un’ideologia o di una visione del mondo. L’interpretazione e la critica letteraria, però, sono – restano – un’altra cosa.