Nel novembre del 1892, quando si imbarca da Brindisi per la Grecia, Richard Strauss, pur appena ventinovenne, ha già all’attivo un curriculum di tutto rispetto: dal dicembre del 1885 all’aprile dell’anno successivo Hofmusikdirektor a Meiningen, dall’agosto del 1886 al settembre del 1889 terzo Kapellmeister alla Hofoper di Monaco, nel settembre del 1889 Strauss era stato nominato Kapellmeister allo Hoftheater di Weimar. Nel 1881 era apparsa a stampa la sua op. 1, una Festmarsch per grande orchestra. Negli anni subito successivi trovarono la loro prima esecuzione una serie impressionante di lavori, dalla Seconda Sinfonia op. 12 al Concerto per violino op. 8, dalla Suite per fiati op. 4 alla Serenata per fiati op. 7, fino ai primi poemi sinfonici (Aus Italien op. 16; Don Juan op. 20; Macbeth op. 23; Tod und Verklärung op. 24). Al 1890 risale la prima esecuzione della prodigiosa Burleske per pianoforte e orchestra, la cui composizione era però stata ultimata già quattro anni prima, nel febbraio del 1886. Del lungo viaggio in Grecia, in Egitto e in Sicilia intrapreso, come si è detto, all’inizio del mese di novembre del 1892, e durato fino al giugno del 1893, possediamo un diario che copre il periodo che va dall’inizio del viaggio (4 novembre 1892) al 15 gennaio del 1893. All’arrivo a Olimpia, nel primo pomeriggio del 12 novembre, Strauss, in uno stato di ‘elevazione spirituale’ determinato dalla ‘celeste pace divina’ dei ‘luoghi venerandi’ che ha appena raggiunto, annota: «Quale armonia di natura e di arte! Il polo opposto rispetto allo sviluppo della nostra civiltà cristiano-germanica, che è arrivata a produrre la musica del diciannovesimo secolo attraverso un formidabile sforzo di interiorizzazione del pensiero religioso. - Bayreuth! - Olimpia! Lì un genio senza pari, che, oltrepassando di gran lunga i limiti del suo popolo, in virtù della straordinaria energia spirituale che lo animava è stato in grado di innalzare il più sublime monumento che lo sviluppo culturale (Kulturentwicklung) di ogni popolo sia mai stato in condizione di presentare al mondo fino ad oggi; un genio solitario! Qui un popolo intero, così sensibile alla contemplazione pura, traendo occasione dalle circostanze, in quanto tali di poco momento, determinate dalle gare di corsa e di lotta, crea la bellezza ideale propria, ad esempio, dell’Hermes di Prassitele, configurando nel grado più alto possibile di compiutezza la forma esterna destinata alla contemplazione. Libera sensibilità al bello, religione della natura, contemplazione pura - Olimpia! Elevazione filosofica, oltremondana; profondissima interiorità - Bayreuth! Un grande popolo! Un grande genio!». Più interessante ancora quanto Strauss annota il 22 novembre, dopo aver visitato il Museo Archeologico di Atene: Strauss distingue qui l’arte arcaica e postclassica, delle quali sottolinea la «forza straordinaria con la quale danno espressione a ogni moto dell’anima», dall’arte del periodo di Fidia e di Prassitele, che impressiona non in virtù della forza dell’espressione, ma «per il tramite della più sovrana misura di bellezza». Nell’arte classica, prosegue Strauss, «l’espressione non è spinta alle estreme conseguenze». Che l’espressione, in Fidia, sia solo accennata, allusa, è un dato che per Strauss è da spiegare, oltre che in chiave di precisa scelta stilistica, come fatto da riportare alle caratteristiche proprie della plastica, arte statica, non dinamica. Quanto segue è davvero di estremo interesse: «Nella nostra arte» - che qui Strauss per ‘arte’ intenda ‘musica’ è cosa che emerge con assoluta chiarezza dal contesto immediatamente successivo - «a chi è chiamato a interpretare i capolavori di un Beethoven, di un Wagner, esagerare in espressione si mostra, purtroppo, pressoché necessario se si vuole cercare di salvaguardare il contenuto delle opere eseguite, contenuto che è quasi sempre esposto al rischio di essere totalmente obliterato per colpa di gente ignara delle cose, il che è poi vero in modo particolare in tempi nei quali una schiera imponente di gente del mestiere si impegna a negare alla musica qualsivoglia contenuto poetico». Qui non è dunque la categoria di espressione (Ausdruck) in quanto tale a essere messa in discussione, ma il fatto, piuttosto, che l’espressione abbia finito per diventare oggetto di operazioni di tanto necessaria quanto indebita sottolineatura, specie a livello di resa, di interpretazione, per reazione al concorrere di circostanze sfavorevoli (l’incompetenza degli ignari, da un lato; dall’altro, la resistenza ideologica opposta da un’agguerrita schiera di Zunftgenossen, ‘gente del mestiere’, all’idea che la musica possa essere portatrice di contenuti poetici: difficile non vedere, qui, una stoccata al formalismo di Hanslick e epigoni). E poi: «Fidia e gli scultori più tardi intensificarono spesso l’espressione fino a portarla a un grado di abbagliante evidenza! Beethoven e Liszt! Con l’unica differenza che Fidia, quanto a dominio della materia e a tecnica, era già al sommo della perfezione! La ridotta espressività dell’orchestra di Beethoven, dunque, forse piuttosto il risultato di una costrizione? Se è così, forse questa semplicità espressiva appare solo adesso, a noi per primi, come il punto culminante della misura classica» (senza esserlo, intende dire Strauss). «Il paragone» - continua Strauss - «zoppica inoltre anche per un altro motivo, che consiste nella differenza che passa tra i due generi artistici in questione: nella scultura fissità (il carattere deve risiedere interamente nella forma, senza il concorso dell’azione), nella musica sviluppo! Ecco la ragione per la quale in musica l’espressione deve essere portata alle estreme conseguenze (forse è anzi proprio questo che soprattutto le si conviene): alla fine fa la sua apparizione colui che in questo si è rivelato maestro: Wagner, per i tempi a venire l’autentico classico in musica!». Se è vero che l’atteggiamento di Strauss nei confronti dell’antico (delineato, nel Tagebuch, in linea con l’eredità romantica e, a un tempo, secondo le coordinate messe a punto dalla Kulturgeschichte tardo-ottocentesca: numi tutelari Wagner e, almeno per la categoria di Ausdruck, Friedrich von Hausegger) perdurò sostanzialmente inalterato fino ad alcuni scritti, capitali, degli ultimi anni: il Brief über das humanistische Gymnasium (1945), le Betrachtungen zu Joseph Gregors «Weltgeschichte des Theaters» (1945), e la cosiddetta ‘Letzte Aufzeichnung’ (1949), è vero anche che la progressiva, e pur sempre relativa, emancipazione da Wagner e dai presupposti culturali e estetici di marca prevalentemente (anche se non esclusivamente) romantica che configurano la poetica compositiva del giovane Strauss produssero nel tempo l’approdo a una visione dell’antico e della Grecia più spiccatamente ‘classica’ rispetto agli esordi più mossi e inquieti che affiorano nelle pagine citate del Tagebuch. Un dato, questo, che si riflette inevitabilmente anche nella produzione teatrale di argomento mitologico-classico, che prende certo le mosse dal denso wagnerismo di Elektra (1909), per pervenire però già pochi anni dopo, con Ariadne auf Naxos, a soluzioni di segno decisamente diverso, e poi, con Die Ägyptische Helena, a esiti che lo stesso Strauss descriverà più tardi, proprio in opposizione a Elektra, evocando i mani di Winckelmann e di Goethe (a non dir nulla, certo, delle più tarde Daphne e Die Liebe der Danae). Rispetto al quadro configurato dalle note di viaggio del 1892, negli scritti tardi ai quali ho appena fatto cenno affiora però un tratto di discontinuità ben più significativo: se infatti nelle giovanili pagine di diario il punto di partenza era individuato nella civiltà greca classica, e nella musica tedesca ‘moderna’, da Bach a Wagner, passando per Mozart, Beethoven, Weber, Berlioz e Liszt, con Wagner al culmine assoluto del processo, in quelle senili il punto d’arrivo è fatto coincidere da Strauss con la sua stessa esperienza di compositore. Al modello lineare, ottimisticamente progressivo, di ‘sviluppo’ (Entwicklung) dal quale discendono le argomentazioni svolte nelle pagine di diario del 1892 si sostituisce, nello Strauss degli ultimi anni, un modello di natura molto diversa, fondato sull’idea che progresso e sviluppo siano da intendere non linearmente, e indefinitamente, proiettati in avanti, ma organizzati organicisticamente, e ciclicamente, in un succedersi costante di epoche, fasi, periodi che, proprio come gli organismi viventi, nascono, crescono, declinano e muoiono. In quest’ottica, che non ha più nulla dell’ottimismo progressivo del modello lineare, e vive invece tutta nell’ambito di un ormai totalmente disilluso Kulturpessimismus, nella scia di Spengler, il vecchio Strauss (www.youtube.com/watch?v=x1o6D1pTJqc) finisce per assegnare a sé stesso un ruolo che, pur corrispondente, in certo modo, al ruolo in precedenza assegnato a Wagner, ha molto più del terminale, del crepuscolare, dell’estremo, che non del trionfalmente culminante. A questo va riferita la bella immagine dell’arcobaleno, che affiora due volte nel citato scritto sulla Weltgeschichte des Theaters di Gregor, prima a rappresentare l’arco di sviluppo della civiltà occidentale fino a Wagner e allo stesso Strauss (che cita, insieme ad altro, tutte e cinque le sue opere di argomento mitologico-classico), poi nel contesto di un passo nel quale Strauss, chiamando di nuovo in causa le sue opere ‘greche’, colloca sé stesso, appunto, am Ende des «Regenbogens», ‘alla fine dell’arcobaleno’. Kulturgeschichte borghese, pensiero analogico e modello ciclico concorsero in modo ideale a assecondare una strategia di costruzione identitaria tanto complessa e articolata quanto tenace, per non dire strenua; una strategia di costruzione identitaria che, prendendo le mosse dalla Grecia classica, culminava, pur terminalmente, proprio in Strauss. Per quanto Wagner avesse riflettuto sull’eredità proveniente dalla Grecia classica più a fondo, e con più consapevolezza, di qualunque altro musicista dell’Ottocento, la sua drammaturgia aveva mancato di articolarsi intorno al mito greco antico, preferendo orientarsi in altre direzioni. Quel che Strauss si attribuisce con orgoglio è dunque la realizzazione di un’impresa che non era riuscita neanche al pur venerato Wagner, ovvero la compiuta conciliazione dei due poli (la civiltà classica, da un lato; quella cristiano-germanica, dall’altro) attorno ai quali la strategia identitaria straussiana aveva cominciato a ruotare fin dalle pagine del giovanile diario di viaggio dalle quali ho preso le mosse. Solo all’interno di un quadro configurato in questi termini (artificiosi, per non dire ingenuamente anacronistici) dovette sembrare possibile a Strauss non solo neutralizzare le etichette di opportunista attardato, di polveroso passatista riservategli da molti, e proporsi, anche per i tempi a venire, come coronamento, e, insieme, come garante e custode, di una tradizione millenaria e gloriosa, ma anche, e forse soprattutto, sopravvivere agli orrori della guerra, al crollo del suo mondo.

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