Da quando con papa Leone XIII (1878-1903), la Biblioteca Apostolica Vaticana fu aperta a un pubblico sempre più ampio di ricercatori, questa prestigiosa istituzione non solo ha accolto nelle sue maestose sale i più grandi studiosi del mondo, ma non ha mai deluso le loro aspettative. Nel 1886 fu riscoperto, ad esempio, l’autografo dei Rerum vulgarium fragmenta di Francesco Petrarca ad opera di due studiosi stranieri (Arthur Pakscher e Pierre de Nolhac), cosa che suscitò l’ironica riflessione di Giosue Carducci e Severino Ferrari nella premessa alla loro edizione di Francesco Petrarca, Le rime, uscita a Firenze, per i tipi di Sansoni, nel 1899: «Così noi italiani mercé la sbadataggine e trascuranza nostra dobbiamo chiamarci grati ai dotti stranieri che vengono a rimetterci in possesso di ciò che noi avevamo abbandonato all’obbligo che vengano a restituirne la conoscenza di ciò che ci eravamo indurati a ignorare» (p. XXXIII).

Per venire all’oggi, merita di essere segnalata una bella scoperta di Maria Careri, docente di Filologia romanza dell’Università di Chieti-Pescara, appena pubblicata nel volume 39 della rivista «Medioevo romanzo», con il titolo Una nuova pagina di lirica romanza (provenzale, francese e italiana): Vat. Pal. Lat. 750, c. 179v. Nell’ultima pagina del manoscritto prevalentemente giuridico segnato Palatino latino 750, la studiosa ha infatti rinvenuto, trascritte su più strati e più tempi (dall’ultimo quarto del Duecento alla prima metà del Trecento), quattro o cinque canzoni provenzali, una ballete francese, una ballata di Francesco da Barberino e alcuni altri testi di lirica italiana trecentesca. Nel caso dei testi provenzali sono canzoni di Aimeric de Pegulhan, Folchetto di Marsiglia e Raimon Jordan, già note per altra via, ma soprattutto «altri due testi (o uno?) di cui purtroppo si legge oggi solo qualche piccolo frammento, che non sembra avere riscontro nella tradizione manoscritta della lirica provenzale». Se la ballata francese e quella di Francesco da Barberino sono già conosciuti, anche se per via di un solo testimone, nel caso degli altri testi presenti nella carta, trascritti in un volgare settentrionale, si può tornare a parlare di inediti. Una pagina che non solo ci consegna una panoramica della lirica romanza, ma ci offre anche la documentazione del progressivo passaggio di moda della poesia provenzale, al punto che i testi redatti in questa lingua vengono sovrascritti dalle ballate francese e italiana.

Questo ritrovamento, insieme a quelli recenti della traduzione italiana dell’alba di Giraut de Bornelh, Aiuta De’, vera lus et gartaç, della canzone Quando eu stava in le tu’ cathene, del frammento piacentino di Oi bella, entrambi corredati di note musicali, del frammento zurighese Resplendiente stella de albur di Giacomino Pugliese, e infine dei lacerti di quattro canzoni della Scuola siciliana copiati a Bergamo su una pergamena di riuso tra gli anni Cinquanta e Settanta del Duecento, testimonia da un lato di quanto sia ancora produttivo lo scavo meticoloso dei fondi di biblioteche e archivi (encomiabile per l’Archivio di Stato di Bologna lo spoglio a tappeto che da anni esegue Armando Antonelli), dall’altro della necessità di ampliare il capitolo della prima lirica romanza, ridisegnandone anche parzialmente l’originaria fisionomia.

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