In uno dei suoi film più noti, Io e Annie (1977), Woody Allen pronunciava una battuta ormai celeberrima: «Dio è morto, Marx è morto e anch’io oggi non mi sento tanto bene!». Negli ultimi tempi questa frase riassume in modo efficace la scarsa considerazione che la cultura umanistica riveste agli occhi di buona parte degli Italiani e dei loro governanti. Purtroppo espressioni come “con la cultura non si mangia” sono ormai entrate nel senso comune, anche se sono affermazioni prive di ogni fondamento. Non solo: è vero l’esatto contrario. Come tutti sanno (anche se, per comodità, si finge il contrario) non vi è crescita economica senza massicci investimenti nella ricerca e nell’istruzione, cioè nella creazione e trasmissione dei saperi e delle conoscenze.

Da tempo ormai non si contano gli appelli a difesa di vari ambiti dei saperi umanistici: dalla storia dell’arte, colpevolmente espulsa dall’insegnamento scolastico per effetto della cosiddetta “riforma Gelmini” (proprio mentre si proclama giustamente l’esigenza di tutelare il nostro straordinario patrimonio archeologico, architettonico e artistico e di renderlo economicamente redditizio attraverso il turismo culturale), alla geografia, strumento indispensabile per muoversi nel mondo di oggi. Recentemente è stato pubblicato un appello “per le scienze umane”, firmato da Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia, che denuncia «la crisi verticale che investe l’intero retaggio culturale del paese di cui la tradizione umanistica è parte fondante». Giustamente gli autori sottolineano, ad esempio, come l’ignoranza del passato nelle sue molte sfaccettature e nella sua complessità spiega il drammatico declino non solo della cultura, ma della stessa qualità della nostra vita collettiva.

L’appello è stato peraltro criticato da diverse parti. Michele Dantini, uno storico dell’arte contemporanea, ha polemizzato definendolo «pedante e libresco», in quanto intessuto di retoriche sull’identità, dimentico del rapporto delle scienze umane con le nuove tecnologie e sostanzialmente chiuso ai reali problemi odierni.

In effetti i ragionamenti di Asor Rosa, Galli della Loggia ed Esposito sembrano più dediti a rimpiangere un passato illustre e a sdegnarsi per la perdita di prestigio della cultura umanistica che a interrogarsi sulle responsabilità in questo processo di quella parte del ceto intellettuale - di cui essi fanno indiscutibilmente parte - che ha o ha avuto posizioni di primo piano nella vita pubblica (nei giornali, nelle televisioni, nelle università, nei quadri dirigenti delle imprese e delle amministrazioni, nei sindacati, nei partiti e nelle istituzioni). Né essi, nella giusta critica del presente, avanzano proposte che guardino al futuro e non al passato. Intendiamoci, come molti interventi seguiti alla pubblicazione dell’appello hanno messo in luce (ad esempio Daniele Scalea), il ruolo dei saperi umanistici è di tipo anzitutto formativo: essi educano al pensiero critico, abituano a spiegare la complessità del mondo che ci circonda e costituiscono il vaccino culturale fondamentale contro ogni fanatismo, integralismo e razzismo, poiché ci insegnano che per imparare di più su noi stessi dobbiamo conoscere ciò che è fuori di noi e rispettare, anche se non lo condividiamo, ciò che è altro da noi. In un certo senso, la cultura umanistica rappresenta il presupposto per il progresso civile ed economico di ogni comunità civile.

Lo stesso fenomeno ha peraltro colpito, forse in maniera meno evidente, ma altrettanto profonda, la cultura scientifica. Al di là dell’omaggio formale che viene tributato dai mezzi di comunicazione alle scoperte in campi come la medicina o la fisica, in questi anni, vi è stato un crollo degli investimenti nella ricerca di base, vale a dire nella linfa della ricerca scientifica. Del resto è convinzione comune che la ricerca scientifica valga solo in relazione alle sue concrete applicazioni e del suo sfruttamento economico e commerciale. Da parte loro gli scienziati italiani lamentano da molto tempo non solo l’esiguità dei finanziamenti, pubblici e privati, alla ricerca, ma anche il sostanziale disinteresse del ceto politico, dovuto, a loro parere, alla prevalente formazione umanistica.

Secondo la vulgata giornalistica si tratta di un lascito duro a morire dell’idealismo di Benedetto Croce e Giovanni Gentile - poco attento alle scienze - e teso ad affermare il primato della filosofia e della storia. Altri richiamano invece “Le due culture” (1959) di Charles Percey Snow, un fisico e consulente governativo britannico, un pamphlet incentrato sull’idea di un’opposizione radicale fra sapere scientifico e lettere.

Si tratta in realtà di polemiche ormai da tempo superate. Tuttavia l’idea di una presunta separatezza fra discipline scientifiche e discipline umanistiche ha incontrato largo favore, complice la convinzione diffusa che sia possibile un progresso tecnico ed economica che prescinda dalla crescita culturale dei singoli e delle collettività.

In realtà la considerazione sociale della scienza in Italia è assai bassa non per prevalere della cultura umanistica, ma per il motivo esattamente contrario: la crisi della formazione umanistica (dalla scuola all’università) e la sua perdita di rilievo sociale a favore di ambiti ibridi (il diritto e l’economia) hanno finito per togliere un supporto fondamentale alla ricezione e alla diffusione del sapere scientifico. La drastica riduzione della disponibilità di conoscenze di base e di preparazione critica in ampi strati della popolazione, ha finito per scavare un fossato impressionante di cui oggi anche il mondo scientifico si rende conto. Non si spiega altrimenti la crescente diffusione - anche grazie alla capacità di amplificazione e di penetrazione della televisione e del web - non solo di sette religiose, di sub-culture, più o meno innocue, legate al paranormale o dedite addirittura alla magia, ma anche delle credenze in cure pseudo-mediche miracolose. In questo caso ciarlatani abilissimi a sfruttare economicamente il dolore e la paura di malati e dei loro familiari - disposti a tutto pur di assicurarsi una speranza di vita o di guarigione da mali per cui la medicina non conosce cure - ha facilmente campo libero di fronte a persone culturalmente impreparate e povere, anche se spesso non necessariamente sprovviste di mezzi economici.

Queste situazioni sono il risultato dell’indebolimento della formazione scolastica e universitaria, le uniche in grado di trasmettere capacità critica all’interno della società. Una società ormai da anni assuefatta da tanti, troppi, pulpiti, alla sintesi sbrigativa, alle ricostruzioni fantasiose, alle fandonie e alla dietrologia d’accatto - tipiche di certi programmi televisivi che di culturale hanno solo l’etichetta -, ma soprattutto alla colpevole faciloneria di opinionisti e politici, che hanno coniato slogan come quello della “libertà di cura”, senza spiegare che le uniche cure - quando vi sono - sono quelle che seguono i criteri della ricerca scientifica e che rispondono a precisi parametri e verifiche frutto del lavoro di specialisti.

Senza un’autentica formazione di tipo umanistico, non si può dare una cittadinanza critica e preparata di fronte alla complessità della vita e alle stesse sfide che il progresso tecnologico e scientifico ci offrono. Da parte loro, gli intellettuali, siano essi scienziati o umanisti, devono sforzarsi di comunicare alla collettività il senso del proprio lavoro, senza limitarsi a tuonare contro i mali del presente, e - coloro che le hanno avute - devono assumersi le loro responsabilità per gli errori compiuti in passato. Altrimenti continueranno a essere oggetto di ironie, come quelle di Woody Allen: «Gli intellettuali sono come la mafia: si uccidono solo tra di loro» (Stardust Memories, 1980).