Se fosse vero che “ogni pittore dipinge sé stesso” (Leonardo da Vinci), che in ogni opera pubblica importante i pittori si ritraevano di propria mano, per mostrarsi, come in una foto profilo di Facebook, oggi avremmo una montagna di volti di pittori morti, ma ancora vivi in figura, che ci guardano dal passato e indicano la scena che loro stessi hanno dipinto, magari da una posizione laterale.

In linea di massima la prammatica degli autoritratti, già noti e certi, prevede tre caratteristiche principali: 1. Lo sguardo eterodiretto (rivolto verso l’esterno al fine di porsi come intermediario tra la scena e lo spettatore o rivolto altrove rispetto allo sguardo di altri personaggi presenti nella scena); 2. La deissi o indigitatio (letteralmente “dimostrazione”, più o meno dissimulata); 3. La posizione marginale o laterale (Omar Calabrese). Se fosse vero, come emerge da centinaia di esempi da me raccolti, che i pittori si autoritraggono quasi sistematicamente appena ne hanno l’occasione, allora si spiegherebbe perché tutti quei personaggi nelle Sacre Conversazioni o nelle pitture di storia ci guardano (Bredekamp): per cercare il nostro sguardo con il loro, e mostrarci la scena da essi dipinta. Se fosse vero, non solo Caravaggio e Rembrandt sarebbero stati molto “vanitosi”, al punto da ritrarsi di continuo nelle proprie opere (o in ritratti singoli), ma anche tutti gli altri. Perfino gli anonimi, di cui riconosceremmo il volto, come se ci fossimo risvegliati nel bel mezzo del giudizio universale, durante la reincarnazione.

Anche solo a voler guardare il numero delle volte in cui Vasari parla di (auto)ritratti nelle sue Vite, viene subito da chiedersi per quale motivo il tema non sia mai stato approfondito a dovere dalla storia dell’arte. Le ragioni di una vera e propria rimozione sono a mio avviso da cercare nell’estrema attualità del tema, tanto importante da fare parte della nostra vita quotidiana, e da essersi trasformato in una vera e propria abitudine: il selfie. Quando qualcosa è in voga, è molto difficile indagarne le ragioni e le radici profonde (Foucault), tanto più che l’abitudine di autoritrarsi è ancora viva nelle nostre società, e non sembra avere intenzione di passare di moda.

La propriocezione (Stefano Ferrari), il modo in cui i pittori volevano presentarsi ai loro spettatori, li esibisce di volta in volta con maschere e fogge diverse: l’armatura, la nudità, le vesti eleganti o da pastori. Per la sua imprescindibile necessità, Vasari reputò di aspettare a pubblicare la seconda edizione delle Vite, perché non tutte le effigi con i volti dei pittori erano state completate dagli incisori. Egli stesso dichiara: “Né m’è parso fatica, con spesa e disagio grande, per maggiormente rinfrescare la memoria di quelli che io tanto onoro, di ritrovare i ritratti e mettergli inanzi alle Vite loro”; e ancora: “E nel discrivere le forme e le fattezze degl’artefici sarò breve, perché i ritratti loro, i quali sono da me stati messi insieme con non minore spesa e fatica che diligenza, meglio dimostreranno quali essi artefici fussero quanto all’effigie che il raccontarlo non farebbe giamai; […] E se i detti ritratti non paressero a qualcuno per avventura simili affatto ad altri che si trovassono, voglio che si consideri che il ritratto fatto d’uno quando era di diciotto o venti anni, non sarà mai simile al ritratto che sarà stato fatto quindici o venti anni poi; a questo si aggiugne che i ritratti dissegnati non somigliano mai tanto bene quanto fanno i coloriti, […]”.

La brevitas, o brachilogia, il parlar corto del quale Vasari si giustifica con i propri lettori, dicendo di voler descrivere le forme e le fattezze dei pittori, cioè i loro volti e i loro costumi, è legittimata dalla presenza delle loro immagini, più adatte della prosa a dimostrare queste istanze etiche e fisiognomiche (si ricordi che la fisiognomica era una disciplina prima di tutto etica, e cioè scaturiva dall’analisi del comportamento delle persone e dalle analogie che questo aveva con i loro tratti somatici). Infine, Vasari si scusa per non aver trovato i ritratti dei volti di tutti i pittori (o di non essere riuscito a farli copiare); e pone l’accento sulla mancata somiglianza di alcuni, che magari si sono immortalati in giovane età, e che non somigliano all’idea che i propri contemporanei si sono fatti di loro (perché, nel frattempo, i pittori sono invecchiati).

Il brano appena letto è fondamentale: in primo luogo sottolinea la non necessaria somiglianza, e in secondo luogo - si noti bene - il fatto che il ritratto appartiene al linguaggio visuale, e per questa ragione non può essere tradotto in parole, tuttavia dice più di quanto possano dire le parole stesse.

Queste due principali caratteristiche hanno un postulato: innanzitutto ciò che è importante nell’autoritratto, come genere artistico, non è tanto la somiglianza con il proprio autore, quanto piuttosto il fatto che sia riconoscibile come autoritratto (filtri e photoshop furono prima nei pennelli che sullo schermo: il pittore era in grado di togliere o aggiungere rughe e correggere inestetismi o accentuarli). Tuttavia, se all’interno della struttura compositiva una figura agisce in modo tale da mostrare il tramite con lo spettatore, e tale è il modo di porsi da permettere un dialogo aperto con il destinatario dell’opera, allora non è importante che questo personaggio sia troppo somigliante all’autore. Ciò che conta veramente è quello che possiamo dedurre dai suoi movimenti, dalla sua gestualità, dal suo sguardo, dalla sua posizione, dalla sua età apparente, dal suo abbigliamento e dal suo aspetto esteriore. In poche parole, dal punto di vista narrativo, l’abito fa il monaco.

Per cominciare, dunque, vi parlerò di Leonardo da Vinci e del suo autoritratto meno conosciuto. Si tratta del volto di san Giuda Taddeo, nel Cenacolo di Milano [foto*]: penultimo personaggio a sinistra, unico di tredici che guarda verso di noi, come dimostrano non solo gli occhi molto rovinati, ma anche le numerose copie dell’Ultima Cena nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, a Milano, compulsate dagli storici dell’arte. Come se non bastasse, con la mano destra egli indica il proprio petto quasi a dire: “Io ho dipinto questa scena”, scena che egli indica con la mano sinistra, posata col dorso sul tavolo e rivolta verso il centro prospettico, dove è dipinto Gesù. Il volto di Giuda Taddeo si può letteralmente sovrapporre, in trasparenza, a quello del famoso disegno, di mano di Leonardo: l’autoritratto della Biblioteca Reale di Torino (già stampato sulle banconote da cinquantamila lire, per capirci). La coincidenza genera meraviglia: come mai non l’hanno mai detto prima? Pare che, secondo le posizioni più radical-chic degli accademici leonardisti, il disegno di Torino non possa rappresentare il volto di Leonardo per ipotesi di datazione che non concordano (peraltro non unanimemente accettate), invece se per converso quel volto fosse un autoritratto (magari invecchiato), allora il disegno di Torino assomiglierebbe parecchio agli altri, numerosi eteroritratti di Leonardo da Vinci, dipinti da Raffaello (scuola di Atene), Bernardino Luini (Saronno) e da altri allievi e testimoni oculari. Gli incliti studiosi leonardisti che riconoscono nel disegno di Torino un “volto di sapiente all'antica del tutto idealizzato” avrebbero dunque sbagliato qualcosa? Aldilà delle polemiche, ciò che è più commovente nella caccia degli autoritratti e nella loro interpretazione è poter vedere come, attraverso la narrazione, affiori il vissuto personale: non solo il Leonardo auctor (per riprendere una distinzione del dantista Contini) dice al suo pubblico: “Ecco, guardate: l’ho fatto io”, ma anche il Leonardo agens si identifica in uno degli astanti, dicendo: “Io sono testimone di questa scena, e, così come è avvenuta, ve la racconto”. Si noti che dal punto di vista diegetico l’apostolo Giuda Taddeo è l’unico che chieda qualcosa a Gesù durante la narrazione dell’ultima cena: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?” [Gv. 14, 22]. Sulla base di questa battuta e del fatto che Leonardo sceglie di raffigurarsi nel personaggio che la pronuncia, si potrebbe dire che l’intera Ultima Cena è la messa in scena di un intimo dialogo tra Giuda Taddeo-Leonardo e Cristo. Il pittore esprime ai suoi contemporanei, e ai frati (convitati del ristorante del convento, che dovevano condividere con lui lo stesso credo) il messaggio che Gesù affida agli Apostoli: quello di farsi portatori del suo Verbo, o della sua manifestazione sulla Terra, e, cioè, anche della sua raffigurazione. Questo artificio di retorica visuale è un codice illocutivo manifesto, che chi riconosce Leonardo nel volto dell’apostolo riesce facilmente a comprendere per la sua semplicità e purezza. In questa immagine la potenza e l’umanità dell’annuncio evangelico rivelano il genio più d’ogni fantasma o lacerto materiale che rimanga del dipinto stesso, ormai compromesso, come un vecchio rudere, e banalizzato dalla strumentalizzazione ministeriale in un carrozzone per torme di turisti dal guardo offuscato: “Dio ha reso ciechi i loro occhi e ha reso duro il loro cuore”, vedono senza capire la grandezza di un’immagine che resta solo l’esuvie, il vuoto involucro di sé stessa.

Se fosse vero che ogni pittore dipinge sé stesso, per ogni autoritratto che riporteremo alla vita c’è una storia umana da raccontare: inedita, autografa e che racconta qualcosa della persona che l’ha dipinta. Se vorrete leggermi, nelle prossime puntate, restituirò alla Storia le storie umane dei pittori, grazie ai loro volti. Statene certi: non ci annoieremo.