Più o meno chiunque oggi abbia tra i quaranta e i sessant’anni può vantare una sua personale antologia mentale delle strisce di Schulz. Che non consiste tanto nel ricordarsi alcune battute, ma è più un sapore che ritorna, con un po’ di malinconia.

Inutile dire che tra tutti i Peanuts la mia preferita è sempre stata Lucy, sarcastica e sprezzante, non empatica; concentrata solo sulla sua autoaffermazione, alla ricerca continua di conferme megalomani sul proprio conto. Le credenziali di Lucy, la narcisista seduta al banchetto di aiuto psichiatrico, è che sa “tutto”. Da piccola, era bello immedesimarsi in lei perché sembrava così sicura di sé, così a fuoco; da grande, perché tanta esibita spocchia mette in luce una fragilità latente. E poi Lucy fa i raduni bisbetici (e per me la definizione di raduno bisbetico ha un valore fondativo: ogni volta che mi vedo con qualche amica per una serata di complicità femminile, penso con orgoglio che sto facendo un “raduno bisbetico”. Il raduno bisbetico è una forma di rivendicazione femminista). Ci sono immagini geniali come quella per cui i fratelli piccoli sono le matricole della vita (come dice Linus). E poi le battute, alcune gigantesche come quella di Charlie Brown: “Certe mattine la giornata è così stretta che riesci a malapena a entrarci”. Si possono prendere i libri dei Peanuts e aprirli come gli I Ching per avere risposte sulla propria esistenza (c’era qualcuno che alle feste lo faceva sempre). Eccoli lì, quei piccoli personaggi totali con tutte le sfaccettature possibili (lo sconforto, l’arroganza, la dolcezza, la malinconia, l’acume, il sarcasmo, la generosità…), comprese quelle più complesse, se non addirittura nevrotiche o disfunzionali. Snoopy, scrittore fallito, sa come distorcere la realtà e attribuire ad altri le ragioni del suo insuccesso; non è capace di ammettere i suoi limiti. Se soffre d’amore pensa di poter dimenticare l’amata affogandosi di cibo. Linus mette in pratica ogni possibile “strategia di evitamento” (non esiste problema così grande dal quale non si possa scappare), e costruisce così la sua insicurezza – come abbiamo fatto tutti almeno una volta nella vita. Piperita Patty ha problemi di attenzione, non riesce a resistere e si addormenta con la testa sul banco.

I Peanuts sono una specie di allenamento alla vita e al senso di solitudine che accomuna qualsiasi esistenza. Così acuti psicologicamente da rimanere in testa a distanza di anni. Esatti, mai retorici, affilati. Feroci più di qualsiasi altro personaggio di invenzione.

Bene: cosa c’entra questo con Snoopy & Friends – Il film dei Peanuts?

Tutto e niente.

Nel film, prodotto dopo tre anni di lavorazioni dalla Twentieth Century Fox, diretto e pensato da Steve Martino (lo stesso dell’Era glaciale 4) grazie all’aiuto di Craig e Bryan (gli eredi di Schulz), c’è un’assoluta fedeltà filologica. Dalla mitica copertina di Linus, fino al famigerato aquilone di Charlie Brown. C’è la parte ludica, ma manca quasi totalmente il sarcasmo spietato. E allora? Il fatto diventa centrale a seconda di come si va a vedere il film, ma soprattutto con chi.

Snoopy ad agosto ha compiuto senssantacinque anni, mia figlia cinque.

Lei non sa chi è Schulz, né i Peanuts. E anche se glielo spiegassi capirebbe solo che, come i Barbapapà e la Pimpa, anche Snoopy e Woodstock c’erano già quando io ero “piccola”.

Quello che sa con certezza è che in sala c’è un nuovo cartone.

Appena mi sono seduta al cinema, non ho potuto fare a meno di pensare che di fianco a me ci fosse lei, mia figlia. Lei che si era lasciata convincere ad andare a vedere questo film perché mi vedeva entusiasta solo all’idea. E allora mi chiedo che cosa veda lei in quelle immagini, cosa le arrivi davvero. E mi sorprendo a pensare - in modo del tutto acritico - che sono contenta che nel film non ci sia la brillante disillusione delle strisce di Charles M. Schulz. Che non trapeli quasi nulla di quella sensazione di solitudine che mi ha fatto compagnia per tanto tempo. Non è buonismo d’accatto, ma la consapevolezza che tra un genitore e un figlio (almeno per me è così) c'è una specie di patto segreto che si fonda sulla bugia più ottimista: la certezza – l’augurio, l’illusione – che la vita di tuo figlio sarà felice.

Certo mi piace l’idea che inizi a fare conoscenza con i personaggi bambini che si possono amare in tanti modi diversi, e in diverse tappe della vita. Appena vede Charlie Brown ride. Quando si scatena nel ballo più disastroso della storia, apre la bocca stupita. Per una settimana parlerà solo di lui e dei suoi pasticci come prodezze ineguagliabili. Snoopy per lei è, come prevedibile, il più fico di tutti, anche se ridotto a un pupazzo di pezza o poco più. E poi c’è la questione della ragazzina dai capelli rossi. È l’unico vero azzardo di tutto il film. La ragazzina si vede, c’è. Quasi sempre di spalle, ma c’è. Lei, l’eterno femmineo, l’incarnazione stessa del desiderio, e della poesia, non può essere mostrata, non deve, non funziona. Eppure agli occhi di mia figlia funziona. Funziona il suo essere sfuggente, il fatto di incarnare un’idea di purezza che fa compiere a Charlie Brown le imprese più impensabili. Certo il finale è sdolcinato e banale, certo i nostalgici escono dalla sala con la bocca serrata. Eppure rimane nell’aria una specie di malinconia, se non tagliente di sicuro acuta: il desiderio, l’esigenza di provarlo sempre – indifferentemente dall’oggetto – per mettere le bollicine nel sangue all’esistenza. E questo sì, questo mi sembra che mia figlia l’abbia capito. Usciti dal cinema vuole la ragazzina dai capelli rossi. Se non lei in persona, almeno i suoi capelli.