Giorno dopo giorno, rintuzziamo la nostra umanità in un esercizio falso e grave, praticato nei provvedimenti istituzionali e nelle azioni quotidiane, nei corpi ri-formati dalle mascherine e nelle emozioni. È un gioco le cui regole seguono rigide cesure e dualismi, che prima della pandemia avevamo cominciato a riconoscere e a criticare, per immaginare nuovi giochi. Ecologia/economia; natura/umanità; malattia/fame; eroismo/inattività; responsabilità/colpa sono solo alcune delle gabbie concettuali e dei meccanismi strutturanti che ora ci vengono riproposti, rinvigoriti, attraverso vecchie alleanze tra tecné e politica, tra medicina ed economia per affrontare una sfida che richiederebbe invece nuovi strumenti e prospettive originali.

Tra le varie cesure concettuali in voga “ai tempi del Coronavirus”, una mi colpisce particolarmente: l’opposizione distanziamento/prossimità, e il suo correlato di appelli distopici: “stiamo distanti oggi per abbracciarci domani”, “stiamo lontani, ma vicini”; di imperativi categorici: “state a casa!” e di (incerte) misurazioni del confinamento sociale: la distanza minima di 1 metro, la prossimità dall’abitazione (200 metri?). Fin dall’inizio del lockdown_,_ tra gli spazi eccezionalmente rimasti aperti si contano ospedali, fabbriche e case di riposo, dove è più difficile il distanziamento sociale; è stata invece ordinata la chiusura di spazi aperti come parchi, spiagge e boschi, divenuti luoghi moralmente ambigui. Si affaccia all’orizzonte un modello di vita quotidiana regolamentata, improntata all’attraversamento fugace degli spazi aperti per passare dalla casa, luogo intimo e rinchiuso, ad altri spazi chiusi del lavoro e della cura, spazi ispirati ad un modello concentrazionario evidentemente fallito (nel discorso pubblico italiano la casa è rappresentata al contempo come spazio privato e sicuro, lasciando trasparire una “razionalità culturalmente connotata”. Si veda a questo proposito l’intervento di Piero Vereni nel suo blog).

Mentre si affacciano sul mercato della sicurezza app e sensori per misurare il social distancing, rifletto che le scienze sociali hanno approntato da tempo strumenti per valutare, invece, la prossimità residenziale. Se infatti in alcune parti d’Europa, fino a 70 anni fa era molto frequente convivere tra parenti, negli ultimi decenni la “distanza prossima” è divenuta un buon indice per definire le forme di organizzazione sociale e, addirittura secondo alcuni, per “misurare” le differenze culturali e le implicazioni tra queste e le persistenti divergenze tra i sistemi di Welfare State europei (Reher 1998).

Nella storia recente, la famiglia italiana ha affinato l’abilità a “elasticizzare” le distanze tra i parenti, in particolare di generazioni diverse: si vive separati ma insieme; in unità abitative diverse ma contigue, tra le quali si circola quotidianamente o quasi, e con le persone circolano sostanze e simboli (cibo, denaro, gesti di cura, parole e sguardi) che costruiscono e costituiscono il senso dell’esistenza. Ad “elasticizzarsi” è stato anche lo stesso concetto di famiglia e di parentela, che attraverso la pratica delle relazioni ingloba nei linguaggi e negli affetti altre persone non necessariamente imparentate (amici, lavoratrici e lavoratori della cura, step families...). Una abilità che i diversi componenti sviluppano nella relazione, in un equilibrio delicato e non sempre felice tra dipendenza, interdipendenza e aspirazione all’autonomia.

Le regole di distanziamento sociale ‒ quelle istituzionalmente imposte, così come quelle prodotte moralmente (si veda Armando Cutolo in questa rubrica per una discussione sulla assimilazione tra le due) ‒ non impediscono di per sé le “pratiche” di prossimità residenziale”, ma riducono le opzioni praticabili. Al telefono, P. mi racconta che non appena è scattato il lockdown in Toscana la sua famiglia e quella dei genitori, che vivono in un podere a poche centinaia di metri dal suo, hanno deciso di “fare nucleo comune”. Dal punto di vista abitativo e quotidiano non hanno in realtà cambiato nulla, continuando a scambiarsi visite, ma danno un senso nuovo alla parentela che diventa così anche microbioma comune, in linea con le teorie antropologiche che vedono le “sostanze” al centro della costruzione dei legami parentali (Grilli 2019, p. 120) e, aggiungo, anche al centro dell’idea di in/dividuo. Non potendo ampliare troppo il gruppo, però, decidono di “tenere fuori” la sorella di P. e il suo nucleo, con la quale le relazioni verranno mantenute, ma a distanza. Un altro esempio di “selezione parentale” è quello di F., studente messinese: da quando è chiuso in casa con la madre – mi racconta – le visite al padre risposato si sono rarefatte, nonostante sia legalmente consentito, in questi casi, l’allontanamento da casa.

Questi frammenti di quotidianità forniscono spunti per rilevare un possibile processo in atto di restrizione della parentela (e delle relazioni sociali ad essa connesse). Una tendenza a far coincidere la parentela con la casa, in controtendenza con l’attenzione posta dagli studiosi a guardare alla parentela oltre le mura domestiche (Rosina, Viazzo 2008); una sorta di reductio ad unum, per la quale i confini elastici tra dentro e fuori, tra prossimo e distante tipici della nostra cultura della parentela sembrano messi a rischio oltre che dal virus, anche da una prospettiva politica sulla famiglia orientata a semplificare ciò che invece è socialmente complesso.

Bibliografia per approfondire

D.S. Reher, Family Ties in Western Europe: Persistent Contrasts, in Population and Development Review, 1998, 24, pp. 203-234

Oltre le mura domestiche. Famiglia e legami intergenerazionali dall’Unità d’Italia a oggi, a cura di A. Rosina, P.P. Viazzo, Forum, Udine, 2008

S. Grilli, Antropologia delle famiglie contemporanee, Carocci, Roma, 2019

Immagine: Unità di misura nel portico di facciata del Palazzo del Comune, Pistoia (19 marzo 2010). Crediti: MM [Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0 Unported], attraverso eml.wikipedia.org

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