Sylvain Tesson, Abbandonarsi a vivere, Sellerio, 2015

Diciannove cronache di vite non illustri colte in cammino; o meglio, una raccolta di fughe. Questo è Abbandonarsi a vivere, l’ultimo libro di Sylvain Tesson, già vincitore del Premio Médicis per Nelle foreste siberiane.
Un uomo scappa dalla casa dell’amante in modo funambolico, d’altronde per lui Parigi è un impensabile terreno d’arrampicata. Non è un caso che il lessico della montagna attinga alla semantica del gotico: una città irta di pinnacoli, guglie, campanili, che consente viaggi notturni, una possibilità di fuga, giacché arrampicare è “evadere l’umano”. C’è l’odissea silenziosa di Idriss che se ne va dalla Nigeria per raggiungere la Francia. Le fughe abissali di Leplan, le apnee a centinaia di metri sotto il livello del mare. Oates, l’esploratore che, per non gravare sulla spedizione, s’incammina nella neve con l’intento di scomparire per sempre, come in altre latitudini fece meravigliosamente lo scrittore Robert Walser. Brahim che sceglie l’estremismo, scopre una nuova identità. C’è l’ingegnere su una piattaforma petrolifera che si rispecchia nell’eremita Beato Costantino. C’è l’insonnia che fa vagare senza requie nei meandri del pensiero. Ci sono Ernst e Karl che la sera della vigilia di Natale bloccano la funivia a tremila metri d’altezza per godersi il silenzio, un altrove così sublime, eppure neanche troppo lontano da casa.
Tesson è un viaggiatore. Uno scrittore ondivago che riesce a portarci ovunque. In Siberia, in Cina, in Afghanistan, nel Sahara. E in ogni direzione: sulle cime delle montagne e negli abissi marini. Oppure ci lascia a mezz’aria, a goderci la pace di chi sa sospendere per qualche ora la quotidianità. Ci porta ovunque, perché ogni vita è colta nella sua irrequietezza ed è scritta come un reportage in cui anche le descrizioni sono viaggi velocissimi, avventure in pillole. “La frase somigliava a un vetro di Murano frantumato da un colpo di knut nelle raffiche secche di una notte italiana”; e ancora: “Immaginate la Venere di Willendorf ma con un ventre da apneista, una pelle di latte e una testa da Madonna preraffaellita. Nel suo viso, gli occhi azzurri erano due doline carsiche”.
Tesson e i suoi personaggi sospesi tra realtà e immaginazione sono amanti della fuga, del sottrarsi; si mettono in cammino motivati da una qualche idea di salvezza. Rinascere da un’altra parte anche solo per qualche ora; un altrove perfetto, che può anche essere un abisso marino. Sottrarsi è operazione contraria all’esibizione di sé dalla quale siamo affetti, ed è per questo che il libro è legato all’oggi proprio perché ne è lontanissimo. Chi si sottrae flirta con solitudine e silenzio, compie un atto di libertà; qualche volta con ironia, qualche altra alla ricerca della propria autenticità.
Così Tatiana, protagonista del racconto La noia. Tatiana che abita in una città della Siberia dove tutto è congelato. Le strade, i boschi, e pure il tempo. A Stirjivoïe si esperisce l’eternità perché non succede mai niente. Lei si limita a vivere dentro una noia bianca, dove le ore nascono già morte e l’avvenire è un argomento che nessuno si azzarda ad affrontare.
Da lì si può solo scappare. Ma la noia eterna è qualcosa che Tatiana ha dentro come una tara, un destino che la segue ovunque. La fuga, quella vera, ce l’aveva a portata di mano. Aveva Flaubert, la letteratura studiata all’università, ma pensava non servisse a nulla.
Quando si parla di fuga, si parla sempre di tempo, e questo è anche un libro sul tempo. Non quello frammentato degli orologi, né il vuoto della noia, ma uno più vero, interiore, dilatato, bergsoniano; che poi è anche quello dell’immaginazione, la sola fuga che possiamo concederci quotidianamente. Il tempo e il luogo noto a scrittori e lettori dove si vivono vite diverse, e il pensiero si apre a nuove prospettive: il tempo della libertà, al quale si va incontro solo se irrequieti come Tesson.
Non a caso, in esergo c’è una frase di La Rochelle: “Gli sembrava che l’agitazione fosse un modo per rimediare a tutto”. E iniziare a vivere ancora.

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