L’ultima a finire “lost in translation”, maciullata nel tritacarne del traduttore automatico, è stata Emily Dickinson, eppure è da anni che filosofi, linguisti e letterati si interrogano sulla possibilità e bontà della tecnologia, o meglio di un algoritmo in grado di traghettarci meccanicamente da una lingua all’altra. Nel 2003, ad esempio, Umberto Eco mise alla prova Babel Fish, l’allora traduttore automatico del motore di ricerca Altavista, e i risultati furono esilaranti: «The Works of Shakespeare» divenne «Gli impianti di Shakespeare», mentre «Studies in the logic of Charles Sanders Pierce» fu trasformato in «Studi nella logica delle sabbiatrici Peirce del Charles».

Ricerche più recenti, tuttavia, hanno dimostrato i notevoli passi avanti della traduzione automatica: dieci anni dopo l’antenato Babel Fish, Google Translate è stato in grado di decrittare senza fallacia i precedenti sintagmi, ma la strada – per le intelligenze artificiali della chiacchiera – è ancora in salita, come dimostra lo spassoso e intelligente «esperimento con i versi di Emily Dickinson», condotto da Marzia Grillo e recentemente edito da elliot con il titolo Charter in delirio! (pagg. 64, € 7,50).

Dai quasi 1800 componimenti della poetessa americana è stata estrapolata una succinta cernita di 22 liriche, pubblicate nella versione originale con «traduzione automatica a fronte»: i risultati variano dagli errori più grossolani («mine» traslato in «miniera» anziché in «mio»; «league» diventa «campionato» e non semplicemente «lega»; «gay» rimane «gay» anche quando significa «gaio», non omosessuale e così via) alle trovate di genio, benché abissalmente distanti dal significato originario.

Più che in senso letterale, queste versioni vanno giudicate in modo letterario, con un pizzico di ironia e cum grano salis. Solo così è possibile apprezzare la fattura poetica e profetica dei «Charter in delirio» (al posto del «delirante contratto»), o dei «Brividi di Api», degli «Acquisti di Farfalla» e delle «Piste di Peluche», ma anche di più articolate traduzioni come: «Un amico ombreggiato – per giorni Torridi –/ è più facile da trovare –/ di uno di temperatura superiore/ per la Frigida – ora della Mente». Non mancano neppure spiazzanti riferimenti all’attualità, quali la «Natura nel patrimonio netto» o «Il suo Disegno di legge è una Trivella».

Nella postfazione, la traduttrice di carne e ossa Martina Testa si è «divertita a immaginare che il traduttore automatico di queste pagine fosse un nerd, o più specificamente un geek, un patito di tecnologia e informatica; che tendesse al concreto piuttosto che all’astratto e fosse piuttosto alieno agli slanci sentimentali. Un maschio, che in breast legge sempre “seno” e mai semplicemente “petto”». Infatti, la risemantizzazione avviene perlopiù «verso i campi della tecnologia e dell’informatica» o si appiattisce sul lessico contemporaneo spicciolo: la (pianta) digitale, per l’amico algoritmo, è per forza il digitale, così come il web è necessariamente il sito web e lo spot è uno spot. Magie della globalizzazione linguistica!

Stupefacenti, inoltre, sono alcune «soluzioni ritmiche» elaborate dal computer, le quali «sembrano, nella loro semplicità, perfettamente riuscite: ad esempio la coppia di settenari “Ho derubato il bosco/ il bosco fiducioso” o l’endecasillabo “La guancia della bocca è più paffuta”». Anche la curatrice del libricino, da un lato, constata i «passi falsi dei traduttori automatici, simili a quelli degli studenti di una lingua straniera alle prime armi», dall’altro, viceversa, è felicemente meravigliata dai versi algoritmici «totalmente imprevedibili, oscuri e sorprendenti». E che cos’è la poesia se non produzione di meraviglia?