“Ma quel giorno non riporterà in vita le cose che abbiamo amato: le immense giornate limpide e le azzurre calotte di ghiaccio sui monti; i filari di pioppi bianchi che tremolavano al vento, e le lunghe e candide bandiere da preghiera; i campi di asfodeli che venivano dopo quelli di tulipani..Non saliremo sulla testa del Buddha di Bamiyan, dritto nella sua nicchia come una balena in un bacino di carenaggio...mai più.”

Bruce Chatwin, Un lamento per l’Afghanistan, 1980.

Un singolo istante può cambiare il normale trascorrere degli eventi, è un caldo 23 luglio quando un baleno roboante squarcia l’aria di Kabul, schegge di vetri infranti saettano sibilando e turbini di polvere rovente sommergono la piazza affievolendo le acute grida della folla. Poche ore prima si era riversato in strada un nutrito corteo di dimostranti; una pacifica manifestazione organizzata dalla comunità Hazāra per richiedere il passaggio, nella loro provincia perennemente a corto di energia, della nevralgica linea elettrica di nuova costruzione. La forte esplosione colpisce il gruppo di manifestanti radunatosi nella centrale Demazang Square, mietendo 80 vittime e causando un altissimo numero di feriti. La rivendicazione da parte di Isis su quello che è risultato il più sanguinoso attacco contro civili dal 2001, conferma i più cupi timori riguardo all’infiltrazione e coinvolgimento del gruppo estremista nel già travagliato scenario afghano. L’Isis infatti sta penetrando con successo e capillarmente nel territorio consolidando una nuova base operativa e ostacolando il difficile processo di riappacificazione del Paese. Verificatosi a stretto giro con altri episodi di terrorismo a noi più vicini, la notizia del massacro degli Hazāra ha destato in Occidente poca attenzione, resa evidente dal silenzio di mondo politico e social media. Della realtà in cui è incorniciata l’amatissima trama del best-seller mondiale Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini evidentemente il lettore ha serbato pallida memoria. D’altronde la marginalità è un fattore che da molto tempo contraddistingue l’esistenza di questo popolo, minoranza reietta nel lacerato contesto afghano e spesso oggetto di discriminazione. La principale area di insediamento degli Hazāra si trova all’interno della inospitale dorsale dell’Hindokhush, una regione isolata che prende il nome di Hazārajāt formata da vallate dal terreno impervio e dagli inverni interminabili. La storia stessa sembra volgere le spalle agli Hazāra, gruppo etnico/religioso di cui si è persa la memoria riguardo ad origine e provenienza. Sebbene parlino il Dari, Persiano di Afghanistan, i loro lineamenti si distinguono nettamente da quelli delle altre popolazioni afghane tradendo una lontana origine altaica. L’opinione prevalente vuole che gli antenati degli odierni Hazāra siano giunti al seguito delle invasioni mongole del XIII secolo; lo stesso etnonimo infatti deriva dal termine persiano per il numerale mille, probabilmente riferito alle unità dei contingenti tribali/militari (in mongolo ming) di Gengis Khan e dei suoi discendenti; tribù Chaghatay avrebbero dunque colonizzato questa zona di problematico ma strategico controllo mescolandosi con le eterogenee popolazioni locali fra le quali già esisteva un più antico retaggio unno-eftalita. Ulteriore elemento che genera frizione con le comunità vicine risiede nella fede confessionale; durante la dominazione dei Safavidi di Iran (XVI-XVIII) gli Hazāra infatti abbracciarono lo sciismo duodecimano, mentre al contrario la maggioranza della popolazione afghana è di credo sunnita. In un contesto geopolitico in cui la contrapposizione fra sciiti e sunniti ha raggiunto un nuovo acme, l’Isis mira a esasperare la tensione sfruttando la radicalizzazione dello scontro in ogni scenario dove le due correnti sono a contatto. Nella complessa rete mediorientale di alleanze e rapporti, gli Hazāra hanno sempre mantenuto forti legami con i confratelli sciiti di Iraq e soprattutto di Iran; in quest’ultimo paese si è infatti diretta la maggior parte della diaspora Hazāra, e l’indotto proveniente dalle rendite degli immigrati costituisce oggi una voce essenziale dell’economia dell’Hazārajāt. Tuttavia nello stesso Iran le condizioni di questi espatriati sono inclementi; sfruttati come manodopera a basso costo, sono impiegati nei cantieri edili e nei lavori manuali più estenuanti, condotti spesso in condizioni di precaria sicurezza. A Tehran una schiera di invisibili Hazāra è esclusa dalla società e pernotta nei polverosi scheletri in costruzione o in altri alloggi di fortuna. Anche in Afghanistan questa gente è spesso costretta ad abitare in luoghi fatiscenti o in recessi montani, come nel caso della comunità insediatasi nelle grotte dell’antico monastero Buddhista scavato nella falesia di Bamiyan. Nonostante gli Hazāra siano il terzo gruppo etnico rappresentando circa un quinto della popolazione afghana complessiva il loro peso politico e socio-economico è piuttosto limitato. Il dramma degli Hazāra ha invero radici lontane; rimonta in gran parte alla spartizione dell’influenza militare in Asia Centrale fra impero zarista e britannico e allo stesso processo di unificazione del Paese. Al fine di istituire una compagine statuale più coesa re Amir ʿAbd-al-Raḥmān Khan (1880-1901) soggiogò lo Hazārajāt in maniera cruenta riducendo in schiavitù o deportando molti degli abitanti ribelli. Durante il più recente conflitto russo-afghano gruppi militanti Hazāra ottennero, grazie all’affiliazione sciita, supporto dall’Iran; tuttavia la polarizzazione delle diverse identità religiose lacerò maggiormente il Paese e dopo il ritiro delle armate sovietiche l’ascesa dei fanatici Talebani segnò un ulteriore incremento delle violenze settarie a danno degli Hazāra. Ancora oggi, a scapito di una nuova costituzione che tutela i diritti paritari, essi continuano ad essere considerati un elemento estraneo ed emarginato. Ben poco infatti è cambiato nei remoti villaggi dell’Hindokush o nei più poveri sobborghi di Kabul dove la gente vive di stenti, valutando le magre prospettive che attendono i giovani Hazāra tanto in patria quanto all’estero. Lo straordinario paesaggio delle valli di Bamiyan o Ghur, insieme al loro ricchissimo patrimonio storico-culturale, è sicuramente la maggior risorsa che questa gente possiede, ma in un paese martoriato il cui futuro appare sempre più incerto, anche questo fattore risulta essere improduttivo consegnando lo sviluppo economico della regione alla mercé di uno stato indifferente e di nemici sempre più insidiosi.

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