A più di vent’anni dal termine della Guerra civile che la ridusse in rovina (1975-1990), Beirut sta vivendo un periodo di grande trasformazione fatto di luci e molte ombre. Nel contempo i recenti attentati ai quartieri sciiti sono il triste monito che la crisi siriana grava minacciosa sul Paese come l’ombra di uno spettro col quale i libanesi hanno già drammaticamente convissuto. Sotto il fragile equilibrio numerose sono le tensioni covate, alimentate da fattori quali: una controversa ricostruzione, un’endemica debolezza del patto di stabilità interno, pressioni esterne e numero crescente di rifugiati. Significativamente la crisi dei rifiuti di quest’estate ha innescato una più ampia protesta contro il governo portando in piazza migliaia di cittadini esasperati da un sistema politico tentacolare. Tuttavia l’aspetto esteriore del centro della capitale può ancora ingannare, dall’orologio di Nijmeh Square all’elegante Rue Foch, gli isolati del cuore di Beirut sono stati interamente ricostruiti e le facciate in calcare dei palazzi riflettono il loro caldo colore sabbioso nella limpida atmosfera diurna. Archi moreschi, colonnati e decorazioni in pietra sono stati recuperati, riproducendo una sintassi architettonica che ha origine nello stile levantino e in quello coloniale francese ma che si coniuga con le innovative realizzazioni di architetti di grido. La prospettiva delle arterie del centro sfocia sulla Marina e sulla rinnovata Zaitunay Bay, sfavillante waterfront pedonale dominato da torri avveniristiche e con porto turistico colmo di ristoranti alla moda. L’enorme progetto di riqualificazione sembra così aver cancellato, almeno in apparenza, la profonda cicatrice lasciata dalla famigerata Linea Verde, la striscia disabitata in cui cresceva solo sterpaglia e che tagliava il centro città dividendo le zone controllate dai musulmani (West Beirut) da quelle in mano ai cristiani maroniti (East Beirut). La scrittrice Hanan al-Shaykh narra intimamente in Beirut Blues la surreale condizione in cui persone e famiglie erano rimaste intrappolate fra raffiche di proiettili, macerie e granate. Osservando le immagini di archivio che mostrano la nuda devastazione causata dalla guerra sembra perciò di trovarsi di fronte a un miracolo; in realtà sin dalla sua origine il progetto di riqualificazione ha destato aspre critiche. Gestita monopolisticamente da Solidere (Société Libanaise pour le Développement et la Reconstruction de Beyrouth), un ibrido pubblico/privato fondato dal milionario ed ex primo ministro Rafik Hariri (assassinato nel 2005), la ricostruzione ha attratto speculazioni vertiginose il cui risultato tangibile è un centro tirato a lucido ma dall’impalpabile e artificiale atmosfera. Vecchi residenti e commercianti si sono trasferiti, la maggior parte degli abitanti originari non ha infatti potuto permettersi i costi di ristrutturazione fissati sugli alti parametri imposti da Solidere ed è stata costretta suo malgrado ad accettare buonuscite. Molti degli edifici ricostruiti in stile sembrano vuote quinte teatrali, mentre le pretenziose boutique delle più prestigiose griffe mondiali originano un passeggio tanto selezionato, quanto rarefatto e silenzioso. Le vetrine esibiscono un monotono e asettico gusto internazionale infondendo alle strade immacolate un carattere da Outlet o Duty Free raffinati. Il luccicante Beirut Souks ne è forse l’esempio più eclatante; sorto sulle rovine del millenario fulcro delle attività commerciali cittadine, è oggi una galleria che reinterpreta con chic ostentato forme architettoniche orientali e in cui insegne di marchi altisonanti non colmano il vuoto di persone e spirito. Restituita in fulgide forme esteriori la Beirut di Solidere appare svuotata e priva di anima, le fuoriserie parcheggiate a Zaytunay Bay, i cocktails consumati in locali modaioli o gli strip club di Phoenicia Street non sono altro che uno stanco stereotipo. Tutto è stato progettato per rendere la città nuova meta del turismo di lusso in Medio Oriente e attrarre capitali dal Golfo; la crisi politica che ha investito la regione da cinque anni a questa parte ha però ridimensionato l’afflusso di visitatori e reso più inquieto il soggiorno di ricchi uomini d’affari. Per scovare intatto il più genuino spirito della vecchia e colta Beirut bisogna invece inoltrarsi verso i quartieri che coronano la downtown e che preservano l’atmosfera avvolgente di botteghe, balconi chiassosi e caffè animati. Qui si può ancora immaginare, leggendo le descrizioni di Nerval, Flaubert, Twain o Loti, la Beirut che fu, nonostante quel contesto urbano sia oramai stravolto. Sebbene molte delle dimore storiche giacciano in stato di fatiscente abbandono, tuttavia in alcune zone vecchi caseggiati conservano un tessuto sociale radicato e la sua pulsante energia. Nel cosmopolita quartiere di Gemmayzeh, in cui un tempo risiedevano mercanti greci e armeni, un pallido riflesso dell’esperienza passata rivive in un pugno di stretti vicoli raccolti intorno a vecchie dimore e locali frequentati da artisti e intellettuali. La travagliata rinascita della città non può prescindere dai frammenti di memoria sensoriale e architettonica che ancora punteggiano strade e quartieri, ma che sono continuamente minacciati dalla speculazione edilizia. È confidando nell’arcaico mito della fenice che la popolazione di Beirut spera di riappropriarsi dei propri spazi e di rivederli pulsare di linfa vitale. L’infinito ciclo di trasformazione è già in azione modellando incessantemente nuove forme per una città la cui vocazione universalista e cosmopolita resta comunque incancellabile.

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