Elvis Malaj è nato nel 1990 in Albania, ma è in Italia da quando aveva quindici anni. Adesso vive a Belluno, dove studia e scrive. In queste prose brevi, riflette, giocando, sulla sua condizione e su quella di tanti altri, come lui, che si sentono stranieri in un Paese che è quello in cui vivono, ma non quello che li ha messi al mondo.

A tenere uniti questi racconti è proprio il senso di inadeguatezza dei suoi personaggi nei confronti della società in cui vivono, trattato però con ironia e leggerezza dallo scrittore: Kastriot, per esempio, occupa sbadatamente i luoghi delle situazioni che vive, come quando si avventura in una casa estranea, per compiere del bene e si ritrova, invece, a incarnare il più classico degli stereotipi che gli si potrebbero affibbiare, ingiustamente. Lo stesso Kastriot che, a una festa, finirà coinvolto in una rissa («Kastriot era ubriaco e aveva fatto a botte: aveva semplicemente fatto quello che ci si aspettava da un albanese a una festa, anche se non era ubriaco, neanche beveva lui, ma era ciò che pensavano tutti in quel momento», p. 136). Malaj si muove con disinvoltura proprio in queste situazioni, a differenza dei suoi personaggi, in questo limite, nel confine tra quello che si fa e quello che la gente pensa e costruisce nella propria mente, nelle facili deduzioni scatenate dalla fedeltà ai luoghi comuni.

L’autore arriva a far affermare a uno dei suoi personaggi che il razzismo non esiste («il razzismo non esiste. E siccome non ci credo, col razzismo non ho mai avuto problemi», p. 13). Personaggi che affrontano i pregiudizi con aria di sfida, poi si pentono di averlo fatto, poi si fanno difendere da chi li ama, si scontrano con la loro incapacità di percepire una realtà che purtroppo è quella che è. Una realtà sfuggente e forse davvero lontana ed estranea con i suoi meccanismi meschini, per chi ha un nome davvero particolare che è una dichiarazione nostalgica, serissima e lieve allo stesso tempo («Tutti mi chiamavano Glen, in realtà pochi conoscevano il mio nome e il suo significato. Mi chiamo Marenglen. È un nome che esiste solo in Albania. Andava molto di moda negli anni Settanta e Ottanta, quando l’Albania era lo zoccolo duro degli ideali proletari. Marenglen è l’acronimo di Marx, Engels e Lenin. E non dico altro», p. 11).

Marenglen, Kastriot, Maria, Bashkim e tutti gli altri si presentano al lettore tramite una prosa che è, soprattutto, intelligentemente ironica, pungente, ma anche velata d’amarezza: in un altro racconto, infatti, Mrika è alle prese con un profondo disagio («il problema non stava nel sentirsi infelice, lo era sempre stata. Il problema era quella infelicità senza dolore, senza un amore», p. 118); Silvia e Agron, nelle pagine a loro dedicate, si scontrano con il problema dell’incomunicabilità linguistica e quell’esigenza di doversi confrontare con chi porta il nostro stesso volto, i nostri stessi timori («Quando non avevano più dove andare, Agron fermava il primo con la faccia da albanese e gli chiedeva: “A pritni miq?”», p. 93) e parla la nostra stessa lingua, l’unica casa accogliente, anche quando è «aspra e incomprensibile» (p. 102).

Non è mai facile comunicare, e ce lo ricorda più volte («Proprio quando era il momento di usare le parole queste gli mancavano», p. 163), o fare la cosa giusta al momento giusto («Era venuto fuori che avevo uno spiccato talento nell’intuire la cosa da non fare e nel farla nel momento in cui non andava fatta», p. 18).

Non è facile, poi, neanche amarsi, o capire com’è che ci si debba comportare la prima volta, come nel caso dei protagonisti del racconto La Vergine Maria in cui Giuseppe sbaglia, forse, ogni passo che fa, di fronte alla falsa insicurezza e i falsi timori di Maria che, invece, conduce il gioco: perché lei lo sa benissimo che la sua prima volta sarà speciale e ha solo bisogno di una prova per non infrangere la sacralità dell’evento vero e proprio, quando sarà.

Questi racconti, invece, sono la prima volta di Malaj, non una prova però, come quella di Maria, ma un modo ben preciso di presentarsi: con ironia, leggerezza, essenzialità, sottrazione e una doppia anima mai abbandonata (le frasi in albanese, non a caso, non sono tradotte) che racconta la nostra quotidianità e il pericolo dei pregiudizi e del razzismo che possono annidarsi nelle situazioni e nei comportamenti apparentemente più innocui della vita.

Elvis Malaj, Dal tuo terrazzo si vede casa mia, Racconti edizioni, 2017, pp. 164

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