È cominciato tutto quando Michael Lang e Artie Kornfeld risposero all’annuncio che John Roberts e Joel Rosenman – due investitori a caccia di idee per un’insolita commedia televisiva – fecero pubblicare sulle pagine del New York Times e del Wall Street Journal. Il quartetto di belle speranze s’incontrò, unì le forze e le energie, e decise che la rampante società statunitense avrebbe apprezzato molto di più un concerto, una stravaganza, un’esplosione culturale di rock. Al di là di come la si pensi, la scelta si rivelò un asso vincente. Sono passati cinquant’anni dal più grande maxiraduno rock, ospitato sul prato del caseificio di Max Yasgur a Bethel, una cittadina rurale nello Stato di New York, dal 15 al 18 agosto 1969: rievocarne il fascino, la gloria e il mito è un imperativo categorico.

All’evento, dall’organizzazione alquanto approssimativa, parteciparono circa un milione di giovani statunitensi, mossi dall’idea di convivere felicemente insieme nell’utopia caotica di quei tre giorni di pace, amore, musica e naturismo, nel gigantesco ingorgo di pulmini Volkswagen e sacchi a pelo, fra raga indiani e riverberi rock, e sotto dense nuvole di incenso, hashish e marijuana. Spinti da un incontenibile impulso rivoluzionario, rifiutando la consacrata società consumistica, abbandonando ogni convenzionale stile di vita, gli hippy smisero le giacche e le minigonne alla moda per indossare caftani, sandali e amuleti di ispirazione etnica, e assurgere al misticismo con povertà volontaria e letture religiose, ripudiando così l’artificio e lo sfarzo. È stata però la musica la più lucente facciata di quella rivolta, considerata uno spartiacque tra la società degli anni Sessanta, votata all’ottimismo e sorretta dal benessere economico, e la vita che si stava instaurando, all’insegna dell’introspezione e della soggettività. Come un incontenibile flusso, dai campus universitari in sommossa la musica divenne protagonista delle marce di protesta, delle dimostrazioni pacifiste, degli happening e dei freak out, dando così vita a nuove forme di concerto, culminate nella sontuosa esperienza tenutasi sul prato di Bethel.

Sul palco si alternarono per tre giorni soltanto outsider; musicisti più o meno sconosciuti, ma fortemente sensibilizzati e determinati a esibirsi in nome di una causa e di un’ideologia che riguardava la qualità della vita e ciò che la rendeva degna di essere vissuta. La felice parentesi ha rappresentato per Joe Cocker, Carlos Santana, gli Who, Janis Joplin, Ravi Shankar, Joan Baez, Crosby, Stills & Nash, Grateful Dead, Jefferson Airplane un vero trampolino di lancio. Lo è stato perfino per Jimi Hendrix, che proprio in quell’occasione ha consegnato alla storia il momento più iconico: un epocale inno nazionale statunitense, eseguito con la chitarra elettrica in maniera alquanto distorta. Non fu però un omaggio alla Patria, ma un atto di protesta a effetto – anche se Hendrix non lo ammise mai – contro i bombardamenti e i crimini di guerra condotti dalla «Gloria americana».

Woodstock, probabilmente, non sarebbe quello che è diventato se non ci fosse stato l’home-video. Strano a pensarsi e a dirsi, ma è proprio così. Nonostante la fine degli anni Sessanta fosse ricca di immagini frizzanti e vitaminiche, al punto da far sembrare i media non più indifferenti ai gusti e alle manie dei giovani, la comunicazione del tempo non era affatto istantanea ed efficace come quella attuale. La pellicola Woodstock. Tre giorni di pace, amore e musica, diretta da Michael Wadleigh – premio Oscar 1971 per il miglior film documentario – nel corso degli anni ne ha moltiplicato il successo, permettendo così a chi non c’era per le più svariate ragioni, comprese ovviamente quelle anagrafiche, di assaporarne l’indiscusso spirito: rigenerante come un sorso di birra ghiacciata in un pomeriggio torrido, ma anche infido come una sbornia a stomaco vuoto. Parafrasando l’omonimo brano di Joni Mitchell: «Forse è solo una stagione o forse è il tempo dell’uomo. Non so chi sono, ma la vita è fatta per imparare». E ognuno di noi dal vigore di quei tre giorni d’estate – vissuti alla fine degli anni Sessanta o visti soltanto in VHS nella metà degli anni Novanta – ha davvero imparato tanto; perché Woodstock è stato e continuerà a essere una necessità, un obbligo, un’urgenza emotiva, un manifesto di lotta non-violenta.

Immagine: Woodstock Music and Art Fair. Sul palco si esibisce Joe Cocker (17 agosto 1969). Crediti: Woodstock Whisperer [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], attraverso Wikimedia Commons

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