Nell’ultimo libro scritto prima di togliersi la vita – si sottolinea sempre il suicidio di uno scrittore, e in fondo è solo la breve anticipazione dell’eternità letteraria –, nella sua opera più celebre e apprezzata, Dissipatio H.G., Guido Morselli descrive un mondo dal quale è misteriosamente sparito l’uomo. L’intero genere umano, tranne il protagonista che ha tentato di annegarsi buttandosi in lago ed è riemerso senza ritrovare anima viva. La natura si riprende lo spazio che la specie più invadente del Pianeta le ha tolto crescendo e moltiplicandosi. Non ci sono descrizioni spettacolari, benché il romanzo appartenga al genere apocalittico, poi diventato così in voga (si pensi alla Strada di Cormac McCarthy e al film dei fratelli Coen). L’immagine di una gallina che razzola nel cuore finanziario di Crisopoli (la “città della ricchezza”) è più inquietante di una scena da effetti speciali in 3D.
Il morselliano ritorno della natura – e non alla natura –, seppure metafisico e non dovuto a catastrofe, rimanda a Černobyl’, oggi Čornobyl’, in ucraino. Sono passati trent’anni dalla primavera del disastro nucleare. Allora Černobyl’ si trovava in Unione sovietica.
Se in Ucraina ipotizzi, magari solo ironicamente, che un prodotto alimentare provenga dall’area di Černobyl’, ti rispondono che quella ormai è la zona meno inquinata e più selvaggia del Paese. E per certi aspetti è vero. Mentre il reattore numero 4 dove si è sviluppato l’incendio attende una protezione più consona - una copertura mobile costosissima dovrà essere realizzata nei prossimi anni e durerà fino a quando la tecnologia avrà concepito qualcosa di meglio -, la campagna è disabitata dall’evacuazione e anche la città di Pripjat'.
Nei terribili giorni della Avarija, della Katastrofa – il più terribile incidente nucleare della storia – dominava il riflesso censorio del regime comunista. Ai primi vigili del fuoco intervenuti per domare l’incendio al reattore non è stato detto che cosa era successo. Li hanno sepolti a Mosca come eroi in bare speciali per proteggere i visitatori del cimitero dalle radiazioni. I soccorritori e “pulitori” arrivati nelle fasi successive non possedevano molte più informazioni. Erano convinti di dover restare pochi giorni e che bastasse bere della vodka per proteggersi. Consiglio ben accettato, anche solo per non pensare troppo a quello che facevano e vedevano. Lo sgombero degli abitanti dell’area contaminata dalla centrale atomica Lenin – oltre 300mila persone – è stato tardivo, e cinque giorni dopo si è celebrata come sempre la festa del Primo Maggio. Come se niente fosse. Quella manifestazione di autoinganno collettivo e indotto è stato il funerale farsesco dell’Unione sovietica. Un regime dove, come scrive Boris Pasternak nel Dottor Živago, si deve convincere il popolo a credere al “contrario dell’evidenza”.
Anche la natura gli ha dato una mano. Nel momento in cui subiva la massima offesa, sembrava mantenersi in splendida forma. La primavera dell’86 era caldissima e soleggiata: “E neanche a farlo apposta tutto fruttificava e cresceva a meraviglia, da fare invidia. La cosa più terribile, più incomprensibile è che tutto... Era tutto così bello! La cosa più terribile... Era la gran bellezza attorno!”
È una testimonianza dostoevskiana raccolta da Svetlana Aleksievič in Preghiera per Černobyl', libro straziante e surreale che l’ha resa famosa e le ha fatto compiere un primo significativo passo verso il Nobel. In Italia lo ha pubblicato da e/o. Come gli altri testi precedenti e a seguire, è composto da una serie di monologhi. ‘Confessioni’, umane, molto umane, quasi intime, raccolte in centinaia di incontri, e dove la storia universale viene vista attraverso un filtro personale ma collettivo. Un metodo originale, umile e faticoso che la giornalista bielorussa non ha mai abbandonato e l’ha portata lontano. L’opposto della selfie-literatur, del mettersi in mostra dell’autore, che predomina oggi in saggistica, giornalistica e non solo.
Si sono persino svolte competizioni agresti non lontano da Černobyl’, appena dopo il disastro, la vita umana dell’homo sovieticus contava poco, l’ecologia ancora meno. Tutto è cambiato ma non è cambiato molto in fondo. Uno uguale zero: “Dopo Černobyl’ credo sia un fatto naturale. Abbiamo imparato a dire 'io'... Io non voglio morire! Io ho paura... Ma a quei tempi? Alzavo il volume del televisore: trasmettevano la consegna di una bandiera rossa alle mungitrici che erano arrivate prime in una gara di emulazione socialista! Vicino a Mogilev! In un villaggio che si trovava al centro di una 'macchia' di cesio! Che stava per essere evacuato...”
Mogilev si trovava al “centro di una ‘macchia’ di cesio” e si trova in Bielorussa. Il fall-out radioattivo, a causa del vento, si è inizialmente indirizzato verso quel Paese, verso Nord – il confine dista solo 16 chilometri. Le nuvole radioattive non fanno la coda alle frontiere e non hanno problemi di visto. Rapidamente hanno varcato la Cortina di Ferro.
Torniamo all’epicentro dell’Avarija. Le zone intorno al reattore, per un vasto raggio, erano campagna e boschi. L’unica città nei dintorni era Pripjat’, la “città dei fiori”, che contava 47mila abitanti, in parte addetti all’impianto nucleare e relative famiglie. Ora ci sono vegetazione selvaggia, edifici diroccati o crollati, il parco giochi Primo Maggio con la ruota panoramica, arrugginito e più radioattivo del resto della città. Si faceva tranquillamente il bagno e si prendeva il sole nei giorni dell’aprile 1986, non lontano dalla centrale.
Se leggiamo a fondo Preghiera per Černobyl’, la natura si incontra spesso nelle descrizioni della gente. Un po’ come in Dissipatio H. G. sono queste parti impressionanti. Gli animali selvatici prendono possesso dei villaggi spopolati senza paura e familiarizzano con gli animali domestici, abbandonati dagli uomini: “Sono andato a vedere il mio villaggio dopo un anno. I cani si erano inselvatichiti. Trovo il nostro Rex, lo chiamo, non si avvicina. Non mi ha riconosciuto? O non vuole riconoscermi? Si è offeso”.
Racconta il cineoperatore Sergej Gurin: “Tutti questi anni ho continuato ad andare nella zona... Da una casa abbandonata e saccheggiata dagli uomini balza fuori un cinghiale... Esce un alce femmina... Ho ripreso ogni cosa. Voglio farne un film...”
Si avverte un senso di colpa. Il mondo di cultura slava è sempre stato scisso nel dualismo campagna e città. Due mondi distanti. Se percorri le strade di periferia di una qualunque grande città dell’Est i palazzi crescono di dimensione fino a diventare grandi isole di cemento e poi trovi campi e piccole casette di legno, casette di campagna. Un substrato pagano rafforza il misticismo naturalistico, ma il rapporto con la natura è stato alterato.
Circolavano leggende metropolitane su nuove specie post-apocalittiche generate dalle radiazioni: “I pescatori si imbattono sempre più spesso in pesci anfibi che possono vivere sia in acqua che sulla terra. Sul terreno si spostano utilizzando le pinne come zampe”.
Il racconto è del giornalista Anatolij Šimanskij, sempre alla Aleksievič.
“Nei laghi e nei fiumi – racconta Šimanskij – si pescano sempre più spesso lucci senza testa e senza pinne. Praticamente delle pance che nuotano... Qualcosa di analogo comincerà presto ad accadere agli esseri umani. I bielorussi si trasformeranno in umanoidi. Gli animali della foresta soffrono la malattia da radiazione. Vagano con aria afflitta, hanno gli occhi colmi di tristezza. I cacciatori provano paura e pena e non gli sparano. Così gli animali selvatici hanno smesso di temere l'uomo. Le volpi e i lupi passano dai villaggi a cercare le carezze dei bambini”.
E ancora:
“Secondo alcuni scienziati è ormai certo che la scimmia è diventata così intelligente perché viveva in un ambiente radioattivo. I bambini che nasceranno fra tre quattro generazioni saranno tutti degli Einstein. È in corso un esperimento cosmico e noi siamo le cavie”.
Al contrario, i ‘figli di Černobyl’ hanno avuto dalla catastrofe più danni che benefici. Come prevedibile. L’incidenza di tumori, in particolare alla tiroide, tipici dell’esposizione alla radioattività, è notevolmente aumentata. Le cifre sono controverse.
Alla generazione cresciuta nel clima minaccioso e mefitico dell’incidente appartiene Fëdor Aleksandrovič. Allora era un bambino Il giovane artista di Kiev tra il 2013 e il 2014 ha indagato e osservato il mostro nucleare assopito nel precario sarcofago di cemento, il fall-out psicologico e le cause. Sono gli anni di Majdan e della rivolta contro Vuktor Janukovič, il leader filorusso corrottissimo. Fëdor Aleksandrovič è il protagonista di un docu-film straordinario intitolato The Russian woodpeaker, Il picchio russo, del regista americano Chad Garcia, premiato al Sundance Festival l’anno scorso.
Ai tempi di Černobyl’, al Cremlino si era da poco insediato Michail Gorbačëv. La perestrojka (ricostruzione) e la glasnost’ (trasparenza) non erano ancora le parole d’ordine di una politica che lo farà passare alla storia come figura positiva e bonaria. Tantomeno la trasparenza visto che l’incidente al reattore, dovuto a errori e leggerezze in un collaudo di sicurezza, viene tenuto nascosto e una criminale reticenza domina la scena. Cinque anni dopo, nel 1991, l’Unione sovietica cessa di esistere e l’Ucraina diventa indipendente. Di più: l’Unione sovietica cessa di esistere perché l’Ucraina, insieme alla Federazione russa e alla Bielorussia, si dichiara indipendente. Dopo la rivolta di Majdan e la deposizione di Janukovič nel 2014 la guerra nel Donbass, tra Kiev e i separatisti filorussi, riaccende il sentimento di autonomia e il fisiologico vittimismo ucraino.
Come spiega anche Fëdor Aleksandrovič nel film, l’Ucraina ha subito da parte di Stalin la carestia genocidaria del 1933, in cui sono morte milioni di persone. E anche Černobyl’ potrebbe inserirsi nel solco dell’oppressione moscovita. In quale modo? Non solo come crimine comunista – il disastro colposo, e la censura successiva –, ma anche come possibile escamotage per distogliere l’attenzione. Da cosa? Vicino a Černobyl’, area vietata e di massima sicurezza, è stata costruita una gigantesca antenna-radar che doveva servire a ricevere e trasmettere a distanze sterminate superando ostacoli fisici cui le normali antenne erano soggette.
Questa antenna dava un segnale ripetitivo, di bassa frequenza, simile al battere del becco di un picchio contro la corteccia di un albero, che allarmava gli americani durante la Guerra Fredda e disturbava l’etere. Di qui il titolo del film, The Russian woodpeker. Forse doveva servire per controllare le menti oltre Cortina. La gigantesca realizzazione, il “lokator” chiamato “Duga”, “Arco”, è grande come la piramide di Giza e va in rovina ma avrebbe dovuto garantire al Cremlino, in caso di guerra nucleare, un vantaggio in termini di tempo individuando e disturbando i lanci dei missili americani con anticipo. L’Arco doveva subire un collaudo nel settembre del 1986. Vale a dire pochi mesi dopo il disastro di Černobyl’.
La fantasia di Aleksandrovič, artista controverso, che alcuni amano e altri odiano, docente di scenografia teatrale all’Accademia di Kiev, si esalta quando vede per la prima volta l’antenna abbandonata. Sale in cima al mostro, come si potrebbe salire sulla prua del Titanic. Sono immagini spettacolari nella loro potente desolazione. Per giorni ragiona sui possibili collegamenti tra la struttura militare e la centrale di Černobyl’. La conclusione, benché somigli alle teorie complottiste, è molto suggestiva. L’Arco non era probabilmente in grado di mantenere le promesse militari che avevano ispirato il costosissimo progetto e se fosse emersa la verità avrebbe segnato la fine dell’uomo preposto alla sua creazione e sviluppo: Vasilij Šamšyn, diventato, nientemeno, ministro delle comunicazioni negli anni ’80, e in carica fino al crollo del Muro di Berlino. Šamšyn avrebbe fatto pressioni sui tecnici perché un collaudo di sicurezza eseguito senza le dovute cautele causasse l’incidente a Černobyl’, in modo da oscurare il fallimento personale relativo alla antenna.
Io sono per natura allergico alle teorie complottiste, ma questa ha il merito di fare luce sulla mentalità sovietica e post-sovietica. Quando la paranoia, inoculata negli anni del terrore Staliniano, diventa il pane quotidiano, vittime e untori si confondono. Persino nel periodo in cui era prossimo alla morte, Stalin inscena il complotto dei medici ebrei. Instillava paranoia e lui stesso ne era vittima. Il confine tra realtà e irrealtà, nel mondo surreale sovietico, si annebbia. Gli apparati di sicurezza dominano tutto, sono sopra e sotto ogni cosa. 
Fëdor Aleksandrovič denuncia un possibile complotto, un nuovo genocidio ai danni del popolo ucraino. Credo sia improbabile pensare che l’intero apparato di potere sovietico, Gorbačëv compreso, potesse coprire un piano simile. Quando avveniva ma anche quando sono state fatte indagini per chiarire le responsabilità. Forse non mancavano persone inclini a compiere azioni di questa portata, ma evitare che emergessero implicava una capacità di manipolazione e controllo che nessuno aveva. Tantomeno su filiere di comando, staff di tecnici e funzionari. Niente è impossibile ma qui siamo nel campo di ipotesi fanta-politiche, per quanto suggestive. Inoltre commettere un crimine di simile portata per coprire un fallimento minore sembra assurdo, pare troppo perfino per il Cremlino.
Fëder Aleksandrovič vuole indagare in Russia, progetta un viaggio a Mosca ma all’ultimo rinuncia, ha paura. Tiene famiglia. Genitori, e figli. Al Cremlino, dopo tutto, siede un alto funzionario dei servizi, e i rapporti con Kiev sono tesi, sempre più tesi. Nei giorni della rivolta, Fëder riappare e a una folla inferocita contro il regime filorusso di Janukovič espone le teorie dell’Arco, del Picchio russo. Improbabile ma non impossibile. Poche ore dopo la sua arringa di Majdan, i cecchini sparano sulla gente causando oltre cento morti. La fine del regime. Janukovič fugge in Russia, dove tuttora è rifugiato. La Crimea viene occupata dai soldati russi senza uniforme. La paranoia trova diritto di cittadinanza in una nuova recrudescenza di azioni sommerse e subdole, in stile Kgb. I soldati russi che muoiono combattendo nel Donbass vengono sepolti di nascosto, per occultare l’aiuto di Mosca ai separatisti.
Tra le acque e i boschi intorno alla centrale nucleare Lenin circola un’ulteriore leggenda. Nell’Apocalisse si parla della fine del mondo che arriva anche in forma di avvelenamento delle acque a causa di una pianta amara, l’artemisia absynthium, che si può chiamare černobyl’ in lingua russa. Dal nome dell’erba amara deriverebbe, secondo una versione etimologica, il toponimo Černobyl’. Il riferimento alla pianta si trova anche in una poesia di Nikolaj Kljuev. Il poeta simbolista, amico di Esenin, cantore dell’anima contadina, ucciso in Siberia nell’era di Stalin, era sospettato di omosessualità e malvisto dal regime per il suo misticismo legato al mondo della vecchia Rus’ delle icone e delle izbe – precedente l’opera riformatrice di Pietro il Grande –, legato al misticismo primitivo nemico del progresso. Scrive la slavista Olga Simčić nel saggio su Kljuev Izba e universo (Edizioni Vivere In): “… arretrano e scompaiono i valori tradizionali, il povero non trova più la carità, davanti alle chiese sostano solo gli ortodossi e non si vedono più i vecchi credenti, nei campi avanza il ‘Drago di Ferro’, nei mari naviga il ‘Mostro’, e nell’aria vola il ‘Ferramento’, scompare davanti a loro il pellegrino di Dio, sono condannati gli animali e gli uccelli, i pesci si nascondono nelle acque profonde”. Era iniziata la prima guerra mondiale che avrebbe portato la Rivoluzione d’Ottobre, il regime sovietico, l’industrializzazione e la collettivizzazione agricola forzata, la distruzione di centinaia di chiese nella sola Mosca.
Il rapporto con la natura è sempre stato molto controverso nell’impero sovietico che si voleva emancipare da grande paese rurale e semiselvaggio qual era. Il male in Delitto e castigo non è solo l’omicidio della vecchia affittacamere usuraia, ma anche le frustate inferte sugli occhi miti del cavallo. Non sul dorso, proprio sugli occhi.

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