Le vie brulicano di avventori intenti a comprare collane di perle all’ultima moda provenienti dallo Sri Lanka, ninnoli d’avorio africano, profumi raffinati con supporti provenienti da Tibet e Somalia, fiale d’ambra baltica e mobilia ricavata da ogni sorta di legno aromatico immaginabile. Mentre l’odore d’incenso e mirra stordisce i sensi dei visitatori anche dei postriboli di quart’ordine e nel negozio pochi passi accanto un rivenditore mostra gli ultimi ritrovati della tecnica a un pubblico danaroso a sufficienza per poterseli permettere o disposto ad aprire una linea di credito allo scopo, nelle case della ricca borghesia si beve tè speziato da fragranze inconsuete, mentre a tarda sera, a seconda del calendario, si può assistere a festività religiose le più diverse, hindū come musulmane anche buddhiste.
Quella che a prima vista potrebbe apparire una descrizione un po’ enfatica dell’ordinaria amministrazione di un fine settimana in una qualsiasi delle metropoli contemporanee è invece il quadro della Quánzhōu (泉州) intorno all’anno Mille con il quale Valerie Hansen, sinologa di Yale e acclamata autrice di The Silk Road: A New History apre un agile ma estremamente documentato saggio dedicato ai secoli (IX-XII) imperniati intorno allo spartiacque del millennio durante i quali non solo l’Eurasia, ma tutti e cinque i continenti, incluse le più remote isole del Pacifico, vennero risucchiati nel gorgo di quella che l’autrice non esita a identificare come la prima ondata globalizzante della storia.
Per ragioni che un lettore minimamente scaltrito non ha difficoltà a individuare, negli ultimi tre decenni i globalization studies hanno preso piede in maniera sempre più prepotente nelle scienze sociali, facendosi strada di recente (si pensi al Globalization and the Ancient World di Justin Jennings e al più recente Routledge Handbook to Archaeology and Globalization a cura di Tamar Hodos) anche nell’antichistica, suscitando in egual misura risposte entusiastiche (Globalization and the Roman World edito da Miguel John Versluys e Martin Pitts) e altrettanto risolute critiche (per esempio da parte dello storico Greg Woolf). Molti dei dubbi degli scettici hanno a che fare soprattutto e in primo luogo con la terminologia. Internet non esisteva. Believe it or not, i samoani dell’anno Mille è improbabile avessero idea dell’esistenza, per fare un esempio, di Santa Romana Chiesa (e viceversa); quanto a uno dei pionieri – o presunti tali – dell’espansione globale dell’Occidente, Colombo, in barba alla poliglossia che sembra costituire una delle carte vincenti per muoversi nella società globale d’oggigiorno, sbarcato a San Salvador nelle Bahamas dette sfoggio di un raffinato istinto antropologico annotando tra il divertito e il costernato nel proprio diario «questi [i locali] non sanno parlare».
Ovviamente questa e molte altre critiche all’impiego di un termine quale «globalizzazione» per descrivere le società dell’XI secolo sono ben presenti alla Hansen, la quale tuttavia fa notare (p. 243), come vi siano almeno due fattori che avvicinano in maniera piuttosto impressionante il mondo da lei descritto in The Year 1000 e l’ipotetico soggetto di un sequel ambientato mille anni dopo: la compressione spazio-temporale dettata dalla scala senza precedenti in cui, in maniera apparentemente indipendente gli uni dagli altri ma in realtà tra loro legati da forze di carattere socioeconomico davvero transnazionali, idee beni ed esseri umani presero a spostarsi lungo distanze difficilmente concepibili anche per il moderno viaggiatore medio, da un lato; dall’altro, la necessità di adattarsi ad ambienti, tradizioni, climi e leggi sensibilmente diversi da quanto noto in patria, che si rivelò in molti casi l’asso nella manica persino di popolazioni, come gli antenati degli odierni Inuit, noti come Thule, che nonostante un incommensurabile svantaggio tecnologico riuscirono ad avere la meglio degli intrusi norreni che intorno al 900 d.C. erano penetrati nell’entroterra del Canada settentrionale, rispedendoli in Groenlandia e da lì in Islanda.
In ottemperanza alla migliore tradizione dei libri di viaggio e dei portolani arabo-persiani, si pensi per esempio al Kitāb al-Masālik wa’l- Mamālik (كتاب المسالك والممالك) composto da Ibn Ḫordādbeh (ابن خرداذبه, 820-912), Valerie Hansen conduce il lettore attraverso una cavalcata a perdifiato tra erudizione, aneddotica, favolistica ed etnologia che abbraccia l’intero globo terrestre, dagli sfortunati navigatori norvegesi catturati nello Yucatán e sacrificati a Chichén Itzá alle più fortunate spedizioni oltre la Carelia culminate nella fondazione della Rus′ (resa slava di un termine finlandese indicante gli svedesi, «gli uomini del remo») kievana divenuta all’epoca del principe Vladimir I (Володимѣръ Свѧтославичь, ovvero Volodiměr Svętoslavič, 956-1015) una potenza cristiana – ortodossa ‒, di fatto ridisegnando nei secoli a venire e fino ad oggi la carta geopolitica dell’intera Europa (pp. 81-105) fino all’epopea, degna davvero delle Mille e una notte dei regni subsahariani e della costa occidentale dell’Africa (pp. 113-142). Analogamente a Volodiměr (e prima di lui alla sua antiveggente bisnonna Ol′ga) convertitisi all’islam nell’intento di stabilire solidi legami diplomatico-commerciali con la corte califfale di Baḡdād, all’epoca una vera e propria El Dorado dell’Eurasia, i protagonisti di uno dei più avvincenti capitoli di The Year 1000, tra cui spicca «l’uomo più ricco del mondo», Mansa Musa I del Mali emergono dalle pagine della Hansen come pienamente partecipi di – e attivamente in grado di influenzare con le proprie decisioni – un mondo esteso dalla leggendaria Tādmaka (تادمكة), circa 2 km a NE dell’odierna città di Essouk (السوق) in Mali, ai porti dell’Omān (عمان), di Baṣra (ﺍﻟﺒﺼﺮة) e di al-Fusṭāṭ (الفسطاط) sino al corso del Limpopo e al regno di Mapungubwe, fino alle spedizioni di Pizarro e Cortés tra i più attivi esportatori d’oro dell’intero mondo conosciuto, e in grado di includere addirittura le Maldive, come mostra lo spettacolare ritrovamento, lungo il confine tra il Mali e Mauritania, di un carico carovaniero contenente una tonnellata di lingotti di ottone e 4 kg di conchiglie originarie proprio dell’Oceano Indiano.
In un affresco di questa portata, ovviamente, non può mancare la menzione delle «perle della via della seta», le leggendarie città carovaniere di Samarcanda, Buxārā e Xiva in Asia centrale: ma tra i meriti che distinguono The Year 1000 da molti dei suoi predecessori vi è la non comune capacità di sfatare l’aura mitologica (e falsamente irenica) che negli ultimi anni ha fatto la fortuna turistica dell’odierno Uzbekistan, sottolineando per esempio la natura violentissima della secessione (intorno all’875) della dinastia sāmānide (سامانیان) dal Commonwealth del califfato degli ‘Abbāsidi (عباسيون) e l’altrettanto violenta e pervicace espansione tanto nell’India del Nord quanto nelle steppe transcaspiche, come testimonia il racconto di un principe locale della spedizione condotta da alcuni membri della casata contro le popolazioni türciche insediate nel Xorazm (خوارزم). Essa condusse alla cattura di oltre 2000 prigionieri, i quali furono rivenduti sul mercato degli schiavi alla cifra, astronomica, di 600.000 monete d’argento.
In prospettiva, il lettore accorto può riconoscere in queste vere e proprie imprese commerciali le fortune economiche di alcuni tra i più famigerati qağanati del Grande Gioco, da Xiva a Buxārā a Qo’qon, nella valle del Farġānẹ (Фaрғонa) che ancora nell’800 avanzato sfruttavano la destrezza equestre dei Teke türkmeni a danno di ufficiali, imprenditori e missionari russi al punto da spingere infine l’amministrazione zarista alla spedizione militare in quei territori, che avrebbe ridefinito la geopolitica del successivo secolo e mezzo e che ancora oggi, nel pieno dell’espansione economica (e non da ultimo, tramite l’istituto Confucio, culturale) cinese proprio in quell’area del globo (specialmente in Kyrgyzstan e, secondariamente, in Kazakhstan), costituisce uno degli scacchieri più interessanti, e potenzialmente esplosivi, di una tra quelle che di recente Peter Frankopan (2019) ha chiamato le Nuove Vie della Seta.
Come in ogni epoca della storia, ma in maniera ancora più acuta e su scala esponenzialmente maggiore in un’epoca «globale» (caratterizzata cioè da rapporti di causa-effetto tra zone geografiche e comunità tra loro distanti migliaia di chilometri e in alcuni casi persino ignare l’una dell’altra), a fronte di fortune degne dei più intraprendenti tra gli eredi di Sindbād, ogni fenomeno di compressione spazio-temporale e di aumento apparentemente incontrollato di quella che in gergo oggi si chiama connectivity produce anche dannati della terra in egual misura, le cui voci qualsiasi resoconto storico deve cercare di integrare nella propria narrazione al fine di controbilanciare una – distorta – retorica del progresso che, sorprendentemente ma non troppo, non era estranea a molti ambienti tra le diverse comunità oggetto di studio in The Year 1000 come non lo è alle tribune politiche o ai salotti dell’intelligencija – o di quanto di essa è rimasto – dell’Europa contemporanea. Per questo è tanto più degno di nota l’accostamento, nel tempo e nello spazio, che la Hansen riserva nei capitoli dedicati alle straordinarie avventure marittime di arabi, persiani, bizantini, cinesi e javanesi, tra le meraviglie d’oltremare descritte nei portolani califfali e i dettagli, a volte agghiaccianti, riferiti da Ibn Buṭlān (ابن بطلان - 1001-1066) nelle sue «tavole della salute» (Taqwīm al-ṣiḥḥa تقويم الصحة) a proposito delle mutilazioni genitali a cui le schiave – e talvolta gli schiavi – catturati nell’Africa orientale venivano sottoposti, fino ad arrivare ai massacri (all’incirca 60.000 morti in un solo anno) perpetrati a Costantinopoli – ma nelle città portuali cinesi sono registrati all’incirca nello stesso torno d’anni episodi analoghi – perpetrati da inferociti cittadini (e mercanti) bizantini ai danni di quei globalization winners genovesi, veneziani e pisani rei, tra l’altro, di essersi arricchiti oltre ogni decenza praticando, udite udite, dumping fiscale ai danni dei propri concorrenti. Cent’anni prima, nell’Alessandria governata dai Fāṭimidi (فاطميّون), la cronaca registra scene in tutto e per tutto analoghe.
Una menzione d’onore meritano infine due riquadri del fittissimo e caleidoscopico polittico scolpito dalla Hansen nelle pagine di The Year 1000: il mondo austronesiano delle isole dell’Oceano indiano orientale e del Pacifico – da Tahiti al Madagascar – e quello delle steppe mongole e delle foreste siberiane, troppo spesso (e ingiustamente) relegati al ruolo di ultimi – e quasi mai «buoni» ‒ selvaggi in attesa di essere «scoperti» (e civilizzati) dagli europei e che invece emergono dalle pagine del volume come pienamente partecipi dell’avventura globale dei secoli intorno al Mille. Il relitto di Belitung (venduto al governo indonesiano per 32 milioni di dollari dopo essere stato saccheggiato un anno intero e datato su base ceramologica all’826 d.C.), per esempio, offre una delle più spettacolari testimonianze di contraffazione manifatturiera su scala industriale, testimoniata dagli oltre 60.000 piatti di ceramica incisi in pseudo-arabo da mercanti cinesi perfettamente consci dei desiderata del pubblico ‘abbāside al punto da falsificare un prodotto nel tentativo di mettere fuori gioco i propri concorrenti califfali (il vasellame in questione è originaria di Zhǎngshā 長沙, nell’odierno Húnán 湖南). Mille anni prima delle politiche protezioniste di Mr. Trump, il governo ‘abbāside tentò di rispondere, invano, come la storia avrebbe mostrato, mediante politiche che potremmo definire di «controllo qualità» (consistenti nell’applicazione di uno strato d’argento o di rame alla ceramica già sottoposta a cottura nel tentativo di contrastare l’assedio cinese alle quote di mercato di una fetta così influente del proprio body politic), ed è interessante notare come i cinesi stessi vennero ripagati con la loro stessa moneta dai mercanti balinesi e di Java, nel frattempo divenuti i fornitori indiscussi di spezie dell’intero mercato cinese, mettendo fuori gioco i propri concorrenti indiani nella corsa al cardamomo e al pepe nero.
Come già notato, di particolare importanza nel contesto di questo autentico tour de force tra i porti dell’Asia e i mari del Sud è l’osservazione, dall’autrice più volte messa in evidenza, di come una tale esplosione di traffici e di contatti tra uomini, animali, lingue, idee (e germi) abbia avuto conseguenze incalcolabili anche per le – infinite – comunità locali che, per lo meno direttamente, di tale fittissima rete avevano un’idea quanto meno vaga, se non proprio alcuna idea: l’avidità di resine profumate da parte dei cinesi e la volontà dei mercanti indonesiani di appropriarsi delle quote di mercato di arabi e indiani ebbe infatti come conseguenza la nascita, in luoghi come Sumatra, di un gigantesco sistema infrastrutturale in grado di trasformare intere comunità di cacciatori-raccoglitori in (sottopagati) lavoratori a cottimo all’interno di un «sistema agricolo quasi-industriale» (p. 188), la cui complessità e natura predatoria è ben illustrata dalla lista dei beni esportati in Cina dai regni cambogiani di Angkor (អង្គរ) riportata da Zhōu Dáguān (周達觀), che visitò il Sud-Est asiatico nel 1290.
Ritornando infine alle steppe centroasiatiche (p. 155 ss.), la Hansen traccia in pagine di grande suggestione la storia dell’impero Liáo (907-1125 e noto come Mos Jælud in lingua qìdānyǔ 契丹語, 遼朝 in cinese), al centro per decenni di una vera e propria κοινή diplomatico-commerciale con l’Asia orientale (dal Giappone attraverso i porti di Fukuoka 福岡, Tsuruga 敦賀 o Tosaminato 十三湊 alla Cina ‒ Běijīng 北京 ‒ fino alla Corea koguryŏ 高句麗), dimostrando in maniera oltremodo eloquente fino a che punto gli imperi delle steppe, un millennio dopo gli Xiōngnú (匈奴), fossero ancora perfettamente in grado di costruire una società complessa e con legami diretti o indiretti capaci di estendersi dai Paesi del Baltico (il «mare slavonico» secondo al-Marwazī المروزي) all’Afḡānistān ġaznavide (غزنویان 1040-1186).
In un sintetico ma efficacissimo epilogo (pp. 226-235), Valerie Hansen si concentra su alcune figure chiave, anche se non sempre adeguatamente riconosciute come tali, della prima ondata globalizzante da lei descritta nel corso del libro, e cioè individui come il pilota di Vasco da Gama (Malemo Cana), un amerindio di Cape Cod fatto prigioniero dagli spagnoli, rivenduto agli inglesi e ritornato in patria giusto in tempo per accogliere il Mayflower (il suo nome era Tisquantum) fino alla Malinché ritratta in alcune pagine memorabili da Tzvetan Todorov nella Conquête de l’Amérique. Più ancora che istruire gli europei a proposito della geografia e delle società dei territori nei quali questi ultimi si stavano addentrando, uomini – e donne – del genere permisero ai loro sodali d’oltremare di inserirsi all’interno di corridoi e vie commerciali esistenti da secoli e controllati dai locali, e di farlo in fretta. Se nel corso della lettura troppe volte la parola «globalizzazione» può aver suscitato nel lettore associazioni non troppo rasserenanti – specialmente ora che il pallino del gioco non è più in mano occidentale ‒, queste e altre innumerevoli (e ignote) storie suggeriscono una riflessione di non poco rilievo a proposito del binomio globalizzazione-colonialismo, una riflessione che, curiosamente, l’Europa figlia dei Lumi ha dovuto attendere oltre 300 anni per riscoprire, e che era invece senso comune da un capo all’altro dell’Eurasia – e oltreoceano – intorno all’anno Mille: la conoscenza dell’oggetto di conquista è la premessa indispensabile per la conquista stessa. E nel momento in cui X compie lo sforzo – benché nient’affatto disinteressato ‒ di conoscere Y, è estremamente probabile che tanto X quanto Y vengano influenzati, in modi non sempre facilmente prevedibili né scontati, da tale incontro.
Valerie Hansen, The Year 1000. When Explorers Connected the World- and Globalization Began. New York, Scribner, 2020, pp. 308
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