Quest’estate il Brasile non offre solo calcio. Una delle più belle raccolte di arte italiana tra le due guerre è in mostra fino al prossimo 30 dicembre al Museu de Arte Contemporânea da Universidade de São Paulo col titolo Classicismo, Realismo, Vanguarda. Pintura Italiana no Entreguerras  (Classicismo, Realismo, Avanguardia. Pittura italiana tra le due guerre).

Curata da Ana Gonçalves Magalhães, l’esposizione consente di scoprire un autentico gioiello: la collezione personale del magnate brasiliano Francisco “Ciccillo” Matarazzo Sobrinho e della moglie Yolanda Penteado, che costituì il nucleo iniziale del Museo de Arte Moderna di San Paolo, entrando poi a far parte del patrimonio dell’Università cittadina nel 1963. Completata nel 1947, la raccolta si compone di 71 opere provenienti da contesti di pregio come le Biennali veneziane, le Quadriennali romane e da grandi collezioni come quelle di Carlo Cardazzo, Riccardo Gualino, Rino Valdameri, Alberto della Ragione, Carlo Peroni. È la più importante antologia fuori dai confini nazionali della pittura figurativa italiana del XX secolo, di cui mostra con sorprendente esaustività il panorama artistico degli anni Trenta e Quaranta: il “gruppo Novecento” con Mario Sironi, Carlo Carrà, Achille Funi, Ubaldo Oppi, Arturo Tosi, Piero Marussig, Bruno Saetti, Alberto Salietti, Gianfilippo Usellini; i toscani di “Strapaese” con Ardengo Soffici e Ottone Rosai; gli “Italiens de Paris”con Amedeo Modigliani, Giorgio de Chirico, Gino Severini, Massimo Campigli, Filippo de Pisis; la scuola romana con Fausto Pirandello, Corrado Cagli, Giuseppe Capogrossi, Ernesto de Fiori, Afro Basaldella; la “Scuola di via Cavour” con Mario Mafai e Scipione; i torinesi Felice Casorati, Felice Carena e Francesco Menzio; i veneziani Virgilio Guidi e Giuseppe Santomaso; il gruppo di “Corrente” con Renato Guttuso e Aligi Sassu; e molti altri, tra cui Giorgio Morandi. La raccolta si completa con le opere di artisti brasiliani attivi nello stesso periodo – Paulo Rossi Osir, Candido Portinari, Sérgio Milliet, Aldo Bonadei, Quirino da Silva, Mário Zanini, Clóvis Graciano, Alberto Da Veiga Guignard – il cui lavoro dimostra la fertilità e la profondità dei rapporti culturali tra i due Paesi.
Per capire la straordinaria peculiarità della Collezione Ciccillo Matarazzo è necessario ricordare la figura del suo creatore. Francisco “Ciccillo” Matarazzo Sobrinho (1898-1977), celebre multimilionario mecenate di tutte le arti, discende della famiglia proprietaria di uno dei più grande capitali del Sudamerica. Lo zio, Francesco Matarazzo (1854-1937), giunge in Brasile da Castellabate (Salerno) nel 1881 e, partendo dalla commercializzazione dello strutto e di generi alimentari di prima necessità, riesce a costruire un impero industriale e finanziario che alla morte conta 365 fabbriche e quasi trentamila dipendenti. Per gli aiuti economici elargiti alla madrepatria, nel 1917 è insignito da Vittorio Emanuele III del titolo nobiliare di Conte, qualifica che dal 1926 diventa ereditaria su indicazione di Benito Mussolini. Il fratello Andrea Matarazzo (1865-1953), anch’egli uomo d’affari, è in carica come Senatore del Regno d’Italia dal 1939 al 1945. Il figlio secondogenito, Francisco detto “Ciccillo”, studia in Europa rientrando in Brasile nel 1945, col proposito di dedicarsi all’istituzione di progetti culturali per elevare la città di San Paolo a polo artistico internazionale. Uno dei primi impegni è la fondazione di un museo d’arte moderna sul modello del MoMA di Nelson Rockfeller: il Museu de Arte Moderna de São Paulo viene aperto nel 1949.
Negli anni immediatamente precedenti all’inaugurazione del MAM, Ciccillo Matarazzo si dedica a raccogliere un corpus di opere – quello oggi esposto nella mostra Classicismo, Realismo, Vanguarda. Pintura Italiana no Entreguerras che possa costituire l’embrione della collezione permanente. In quanto creazione personale, frutto di una peculiare biografia e storia familiare, la raccolta si orienta prevalentemente verso l’arte italiana, prediligendo la produzione figurativa del periodo tra le guerre mondiali ed escludendo le correnti futurista e astratta. Per la selezione delle opere il mecenate decide di avvalersi della collaborazione dei maggiori esperti in materia: Pier Maria Bardi (1900-1999) e Margherita Sarfatti (1880 –1961).
Fino al rientro in Italia nel luglio 1947, la Sarfatti si muove tra Montevideo, Buenos Aires e San Paolo. Le trattative commerciali per la Collezione Matarazzo vengono da lei affidate in Italia al genero, il Conte Livio Gaetani d’Aragona. Insieme conducono le acquisizioni rivolgendosi specialmente alla Galleria di Milano di Vittorio Emanuele Barbaroux,  grazie a cui arrivano numerosi quadri di ambito Novecentista, degli Italiens de Paris e della Collezione Carlo Peroni. Va inoltre ricordato che nel 1947 il gallerista porta a Buenos Aires la raccolta personale, con la mostra Artistas Italianos de Hoy, colección Vitor Manuel Barbaroux allestita alla Galleria Müller.
Le tele riferibili invece ad ambito romano, torinese e di “Corrente” sono probabilmente da attribuire all’iniziale coinvolgimento del critico e mercante d’arte Pier Maria Bardi (1900-1999) che “fu incaricato – scrive Ana Gonçalves Magalhães nel catalogo della mostra – della prima parte delle acquisizioni per Matarazzo”. La loro collaborazione ha luogo tra marzo e giugno 1946: il collezionista brasiliano stabilisce i primi rapporti con l’Italia attraverso la Galleria d’Arte Palma, aperta dal critico a Roma nel 1944. Tramite Enrico Salvatore Vendramini vengono acquisite le tele provenienti da Carlo Cardazzo e probabilmente da Rino Valdameri. Anche quando la Sarfatti subentra nel ruolo di mediatore commerciale, numerose opere vengono acquisite alla Galleria Il Milione di Gino Ghiringhelli, con cui Bardi continua a lungo a collaborare.
Non c’è dunque da stupirsi che da tali intrecci umani e professionali sia nata una collezione di primissimo piano. Tra tutti il capolavori oggi esposti nella mostra Classicismo, Realismo, Vanguarda. Pintura Italiana no Entreguerras – che forse potremo ammirare nel 2016 al Museo del Novecento di Milano – sono da ritenersi degni di particolare nota: le quattro straordinarie tele di Felice CasoratiNatura morta con limoni (1937), Nudo incompiuto (1943), Testa in armatura (1946) e Maternità (1947) – che sembrano voler creare un ponte tra Realismo magico e Espressionismo tedesco; Bagnanti in piscina (1931) di Giuseppe Capogrossi, con un incredibile trampolino metafisico; i cinque lavori di Massimo Campigli e soprattutto I fidanzati (1924), di incisività picassiana; le due tele con gladiatori di Giorgio de Chirico stilisticamente assai vicine alla Hall des Gladiateurs di Léonce Rosenberg, di cui andrebbe indagata un’eventuale provenienza da Rino Valdameri.

Una menzione speciale va infine attribuita all’opera di Scipione esposta col titolo Oceano Indiano, un olio su tavola fino a oggi dato per disperso, databile al 1929. Esposto nel 1930 alla “Prima Mostra Nazionale dell’Animale nell’arte” al palazzo delle esposizioni del Giardino zoologico di Roma con il titolo Sognatori (recensito da Corrado Pavolini su “Rassegna dell’Istruzione artistica” e “Il Tevere”), riappare nel 1943 a una mostra presso la Galleria Il Ponte di Firenze, per essere poi segnalato al “Museo di Montevideo” da Corrado Maltese in un articolo su “Emporium” nel 1948. Il quadro rappresenta un monaco con barba bianca e sembianze scimmiesche in compagnia di un pappagallo, con lo sfondo di un paesaggio esotico, identificato dalla scritta “Oceano Indiano”. Realizzato nell’estate 1929, quando il pittore risiede nell’Abbazia di Trisulti a Collepardo (Frosinone), il soggetto può essere nato da differenti stimoli: lo scritto Portrait d’un singe dell’amico Emilio Cecchi – pubblicato su “Bifur” nel 1929, con la foto dell’esemplare di Simia Satyrus  dello zoo di Roma – e l’amicizia speciale con un monaco dalla barba bianca dell’Abbazia di Trisulti, testimoniata dal compagno Mario Mafai nella sua autobiografia. Diversi studi grafici di mano dell’autore costituiscono precedenti iconografici dell’opera: tra questi un Ritratto di frate e Schimia Satirus o Studio per l’orango, entrambi già in Collezione Barbaroux. Nel dipinto, la fisionomia della scimmia “satiro” e di un frate forse col passato da missionario sembrano unirsi in un imprevisto autoritratto. Il titolo Sognatori troverebbe allora spiegazione nella sovrapposizione tra il vissuto dell’amico religioso e le aspettative di vita del pittore in quei mesi del 1929, tornate positive grazie a un prodigioso recupero di salute.

In memoria di Maurizio Fagiolo dell’Arco.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata