L’anno 2013 sarà ricordato come uno dei più importanti nella storia della Chiesa: se già la rinuncia di Benedetto XVI al munus Petrinum può essere considerata alla stregua di un gesto – comunque lo si valuti – rivoluzionario, che di fatto non ha precedenti storici realmente comparabili (Celestino V rinunciò, nel 1294, a poco più di tre mesi dalla consacrazione), l’elezione di papa Francesco costituisce di per sé, e indipendentemente dai gesti, dalle scelte e dalle decisioni che stanno già segnando e che segneranno in futuro questo pontiticato, un cambiamento di immensa portata per almeno tre ragioni, delle quali i lettori sono certamente già avveduti, ma che vale la pena richiamare brevemente:

  1. Jorge Mario Bergoglio è il primo papa proveniente dalle Americhe, e – di fatto – il primo di origine extraeuropea, se per ‘Europa’ si intende quel centro di irradiazione culturale che oggi si identifica con la propaggine occidentale del continente eurasiatico, ma che nei primi secoli del cristianesimo gravitava piuttosto intorno al bacino del Mediterraneo (per questo non ha grande rilievo l’affermazione, pur formalmente corretta, per la quale molti tra i primi pontefici – e ovviamente lo stesso san Pietro – non sarebbero stati ‘europei’);

  2. è il primo pontefice proveniente dalla Compagnia di Gesù: un’eventualità tendenzialmente ritenuta così remota che il generale dell’Ordine è conosciuto tradizionalmente come il ‘papa nero’;

  3. è il primo ad aver assunto il nome di Francesco, con una scelta di tale impatto da sorprendere anche gli analisti più attenti: qualcuno si era spinto ad ipotizzare, ed auspicare, che il nuovo pontefice potesse mantenere il nome di battesimo (opzione che ha peraltro dei precedenti fino al Cinquecento, oltre che naturalmente nei primi secoli), ma quella di Francesco è una scelta ancora più radicale, e ben scarsa lungimiranza mostrano i tentativi di sostenere che con questo nome Bergoglio intendesse riferirsi a santi diversi dal poverello di Assisi.

Tre novità assolute dunque – quattro considerando anche la rinuncia di Joseph Ratzinger –, la cui portata dirompente è ulteriormente amplificata dalla loro simultaneità, dai riflessi che ciascuna proietta sulle altre (si pensi soltanto all’apparente paradosso di un ‘gesuita francescano’): quella che stiamo vivendo si può considerare – già ora – una svolta epocale, ed è suggestivo pensare che essa abbia luogo nel decimo settimo centenario di un’altra, cruciale Wende della storia, vale a dire quell’Editto di Milano che nel 313 d.C. ha segnato – o comunque ha rappresentato poi, se si accolgono le analisi degli storici moderni che tendono a ridurre la reale importanza del documento – il gesto più importante dell’imperatore che sarebbe stato ricordato come colui che fondò l’alleanza organica tra l’istituzione ecclesiastica e il potere politico.
Si è discusso a lungo della ‘sincerità’, o viceversa della strumentale ipocrisia, di Costantino, un problema peraltro che oggi si può forse ritenere superato, se è vero – come scrive Andrea Giardina in un saggio contenuto nell’enciclopedia in tre volumi dedicata all’imperatore che l’Istituto della Enciclopedia Italiana e la Fondazione per le Scienze Religiose «Giovanni XXIII» stanno per dare alle stampe – che «ormai nessuno storico serio sostiene la teoria del “cristianesimo politico” di Costantino», e un problema che comunque non modifica la portata di quella che è stata definita come la ‘svolta costantiniana’: la legittimazione del cristianesimo come religione lecita nella sfera politica, ma allo stesso tempo – o, se si vuole, al prezzo di – un suo inscindibile legame con il potere politico, per cui l’imperatore poteva prendere l’iniziativa di convocare un concilio e di intervenire in prima persona su questioni dottrinali, creando in qualche modo le premesse, nelle interpretazioni più radicali, della persecuzione degli eretici e delle guerre di religione; tanto che illustri giuristi statunitensi si spingono fino a vedere negli atti di Costantino la causa originaria, per quanto indiretta, dei genocidi novecenteschi e della stessa Shoah: una tesi alla quale la necessaria sintesi qui appena accennata non rende certo giustizia (alcuni spunti sono presenti già, in forma più sfumata e complessa, nella riflessione di Kart Barth, Das Evangelium in der Gegenwart, del 1935), ma che resta cionondimeno da tanti punti di vista irricevibile, e che pure può servire a dare l’idea dell’immensa portata di ciò che avvenne in quei primi decenni del IV secolo della nostra era.
Di ‘fine dell’età costantiniana’ si è cominciato a parlare, in termini positivi, all’inizio degli anni Sessanta dello scorso secolo (Lorenz Jaeger, Das “Konstantinische Zeitalter” geht zu Ende, 1960; e soprattutto Marie-Dominique Chenu, La fin de l’ère constantinienne, 1961); da allora, molte cose sono cambiate sempre più rapidamente: le società occidentali sono state investite da quello che pochi mesi fa l’arcivescovo di Washington Donald William Wuerl ha definito come uno «tsunami di secolarismo» e che – scomparse dietro un orizzonte che appare già lontano le insegne di qualsiasi possibile ritorno del costantinianesimo – ha fatto parlare di una fine della stessa ‘cristianità’ (Thomas J. Curry, Farewell to Christendom. The Future of Church and State in America, 2001), se con tale termine si intende una presenza pervasiva e fondativa dei valori cristiani nel sentire e nel vivere della comunità: una situazione, questa, che sembra porre ai cristiani, e ai cattolici in particolare, la questione del loro ruolo all’interno delle società cosiddette post-secolari.
L’immagine è quella, antica, del bivio: da una parte l’opzione dell’arroccamento, la tentazione della condanna del mondo e della secessione da esso, la voluptas di sentirsi – di nuovo – minoranza, al prezzo però della rinuncia e della resa, di lasciare insomma il secolo là fuori in balia di quelle che anche i non credenti hanno cominciato a riconoscere come derive relativiste e nichiliste (fenomeni questi che, lungi dall’essere conseguenza diretta del pluralismo culturale, ne costituiscono piuttosto – sia detto per inciso – una radicale e paradossale negazione); e al prezzo di una abdicazione non soltanto ad anacronistiche pretese egemoniche, ma anche al dovere – o, se si preferisce, all’ambizione – di proporsi in un ruolo di guida, o quanto meno come punto di riferimento, per la civitas nella sua interezza e molteplicità.
L’altra strada è quella di un’alleanza con le forze positive di quelle società, sul presupposto di un interesse e di un compito comuni – a maggior ragione nel tempo di una gravissima crisi economica – di fronte a quella che è stata efficacemente definita come ‘emergenza antropologica’. Una possibile direzione e un possibile modello sono stati recentemente indicati da un gruppo di quattro importanti studiosi di formazione marxista (Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti e Giuseppe Vacca), che si sono fatti promotori di un appello – inzialmente nella forma di una lettera aperta pubblicata sull’«Avvenire» del 16 ottobre 2011, e poi con il volume Emergenza antropologica. Per una nuova alleanza tra credenti e non credenti (Milano, Guerini e Associati, 2012) – nel quale auspicano una maggiore condivisione, da parte degli esponenti politici e intellettuali dell’area di centrosinistra, dell’insegnamento della Chiesa cattolica sulla insopprimibile dignità della vita umana e sul primato della persona: «La manipolazione della vita, originata dagli sviluppi della tecnica e dalla violenza insita nei processi di globalizzazione in assenza di un nuovo ordinamento internazionale, ci pone di fronte a una inedita emergenza antropologica. Essa ci appare la manifestazione più grave e al tempo stesso la radice più profonda della crisi della democrazia. Germina sfide che esigono una nuova alleanza fra uomini e donne, credenti e non credenti, religioni e politica». E accolgono esplicitamente, in particolare, due temi fondamentali del magistero di Benedetto XVI: il rifiuto del relativismo etico, che «permea [...], profondamente, i processi di secolarizzazione, nella misura in cui siano dominati dalla mercificazione. Ma non è chi non veda come la lotta contro questa deriva della modernità costituisca l’assillo fondamentale della politica democratica, comunque se ne declinino i principii, da credenti o da non credenti»; e il concetto di ‘valori non negoziabili’, che «non discrimina credenti e non credenti, e richiama alla responsabilità della coerenza fra i comportamenti e i principii ideali che li ispirano».
La proposta, dunque, è quella – nella efficace sintesi formulata nel corso di un’intervista da Giuseppe Vacca («Avvenire», 21 novembre 2012) – di «rompere la spirale secolarizzazione-nichilismo facendo crescere un umanesimo condiviso»; mille e settecento anni dopo l’Editto di Milano, e all’alba di una stagione nuova per la Chiesa cattolica (e anche, si parva licet, per la politica italiana), sembra aprirsi la possibilità di uno scenario anch’esso nuovo, e forse inedito: il riconoscimento di un sentire condiviso, e la costruzione di un’alleanza per il bene comune. Piace terminare ricordando come Seneca, il cui pensiero costituisce il momento di massimo avvicinamento della filosofia classica alla spiritualità cristiana – al di là della complessa questione dei suoi possibili rapporti con le prime comunità di credenti e con lo stesso san Paolo –, amasse chiudere ciascuna delle sue epistole morali a Lucilio con una citazione che spesso traeva, lui stoico, dagli scritti del ‘nemico’ Epicuro, affermando a tale proposito, in un inciso di tono scherzoso che è forse una delle massime più belle che l’antichità ci abbia lasciato, di esser solito recarsi anche negli ‘accampamenti’ altrui, non come disertore, ma come esploratore («et in aliena castra transire, non tamquam transfuga, sed tamquam explorator»): sulla soglia del terzo millennio – viene da aggiungere – potrebbe essere infine giunto il tempo di smantellare gli accampamenti e di edificare una casa comune.