È entrata in vigore, a partire dal 1° luglio, la controversa legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong. Non si conoscono ancora i dettagli, ma saranno puniti con severità i reati di secessione, sovversione, terrorismo e collusione con forze esterne, con pene che prevedono anche l’ergastolo. L’iter finale è stato molto rapido; la legge è stata approvata all’unanimità, nella mattinata del 30 giugno, dai 162 membri dal Comitato permanente dell'Assemblea nazionale del popolo, senza un dibattito pubblico, e firmata in giornata dal presidente Xi Jinping. La data per l’entrata in vigore delle nuove disposizioni, non è stata scelta a caso: il 1° luglio ricorre il ventitreesimo anniversario del ritorno alla Cina dell'ex colonia britannica.

L’approvazione della legge non ha certo colto di sorpresa né i cittadini di Hong Kong né la comunità internazionale ma non è facile prevederne l’impatto sullo scenario globale. Secondo Pechino, la legge rafforza e attua il principio ‘un Paese, due sistemi’ indirizzandolo nella giusta direzione; per le opposizioni sancisce la fine dell’autonomia di Hong Kong. L’attivista democratico Joshua Wong ha paventato l’affermarsi di uno Stato di polizia e insieme ad altri leader come Nathan Law, Jeffrey Ngo e Agnes Chow, ha dato le dimissioni da Demosisto, movimento per i diritti civili e per la democrazia. Dopo una difficile giornata di discussioni interne, nella serata del 30 giugno lo stesso Demosisto ha annunciato su Twitter il suo scioglimento, “date le circostanze”.

Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Europea hanno espresso preoccupazione per gli sviluppi della situazione e per il rischio della fine dell’‘anomalia’ Hong Kong. Pechino ha annunciato restrizioni ai visti per i funzionari degli Stati Uniti colpevoli, dal suo punto di vista, di ingerenza nella vicenda di Hong Kong; un’azione che appare anche come una risposta a simili provvedimenti che gli Stati Uniti hanno annunciato verso funzionari cinesi ritenuti responsabili di violare le libertà e l’autonomia di Hong Kong. Il momento non è facile per Pechino, accerchiata da polemiche e controversie. Negli ultimi giorni di giugno, sono state rilanciate sui media accuse alla Cina per le politiche di contrasto alla natalità portate avanti, in violazione dei diritti umani, verso le popolazioni islamiche nello Xinjiang. Un dossier curato dal ricercatore tedesco Adrian Zenz, parla di metodi autoritari nella gestione del controllo delle nascite, soprattutto verso la comunità degli Uiguri, che includono anche la sterilizzazione e l’aborto. Inoltre, la tensione con l’India, degenerata in violenti scontri alla frontiera il 15 giugno, non accenna a rientrare; il governo di Nuova Delhi ha annunciato la messa al bando per motivi di sicurezza nazionale di 59 app cinesi, tra cui Tik Tok (120 milioni di utenti) e WeChat. Le aziende tecnologiche cinesi hanno un ruolo di primo piano in India, soprattutto nel mercato degli smartphone; i loro affari sono stati messi discussione dal boicottaggio dei prodotti cinesi che si sta diffondendo in India.

La questione di Hong Kong rischia in questo contesto di diventare il detonatore di un processo di ridimensionamento dell’influenza a livello globale della Cina, ovviamente incoraggiato dagli Stati Uniti; le autorità cinesi nondimeno proseguono per la loro strada, coerenti con una politica che se si dimostra flessibile in altri contesti, non transige quando sono in gioco la sovranità e i confini, accettando anche il rischio di una escalation verso una situazione nei rapporti con l’Occidente che ricorda la guerra fredda.

Immagine: Protesta contro la legge anti-estradizione di Hong Kong, 12 giugno 2019. Crediti: flickr.com

Argomenti

#Cina#sicurezza nazionale#hong kong