Tra pochi giorni la famiglia Obama trascorrerà l'ultimo Natale a Washington. Il menù sarà tradizionalmente calorico: uno strappo alla regola rispetto allo stile di vita salutare che la First Lady ha imposto in famiglia e sostenuto pubblicamente, durante gli otto anni di mandato del marito. Ma forse un segno di ciò che verrà, con l'imminente insediamento dell'amministrazione Trump.

Oltre a definire con il cuoco e nutrizionista Sam Kass una dieta per la first family basata su frutta, verdure e cereali integrali, Michelle Obama ha promosso la realizzazione di un orto nel giardino della Casa Bianca, lanciato l'iniziativa salutistica "Let's Move", sostenuto una riforma dei pasti scolastici e ridefinito la piramide alimentare del Ministero dell'Agricoltura (ora denominata "My Plate") per rendere più comprensibile a tutti i cittadini quali siano i cibi necessari per una sana alimentazione.

Si può dire che nessuno prima di lei avesse messo in questo modo al centro dell'arena politica il tema della corretta alimentazione. Ma certamente Michelle Obama non è la prima First Lady a caricare di significato politico, sociale e strategico, ciò che viene messo in tavola al civico 1600 di Pennsylvania Avenue. La scelta dei prodotti, il tipo di cucina, ogni aspetto dell'alimentazione alla Casa Bianca ha sempre portato con sé valori legati ai tempi, alle ideologie e alle necessità geopolitiche.

Non è un caso che la principale eredità di Michelle Obama si sposi con quella che è probabilmente stata la principale battaglia politica di Barack Obama, ovvero l'introduzione dell'Obamacare. Insieme, gli Obama hanno fatto passare il concetto (quasi rivoluzionario negli Stati Uniti) che la salute degli individui sia un tema di natura e rilevanza pubblica.

Analogo è l'impegno profuso da Eleonor Roosevelt durante la Grande Depressione. La First Lady faceva servire, alla propria famiglia e agli ospiti della Casa Bianca, pasti che aveva sviluppato in collaborazione con la Scuola di Economia Domestica della Cornell University. Il punto non era che fossero gustosi (e a detta di chi ebbe la possibilità di provarli, decisamente non lo erano) ma che fossero semplici, nutrienti e soprattutto  economici. Un segnale di coerenza con le politiche del marito e di condivisione delle difficoltà che viveva l'intero Paese.

Quando Eisenhower diventa presidente, nel 1953, la cucina di sua moglie riflette, al tempo stesso la radice militare del potere dell'ex comandante in capo delle forze alleate e la proiezione del paese verso il futuro. Abituata alle razioni dell'esercito e alle necessità portate dai frequenti spostamenti della vita militare, Mamie Eisenhower impone allo staff della Casa Bianca di fare il maggior uso possibile di tutti i prodotti innovativi che in quegli anni vengono introdotti sul mercato. Le sue scatolette, surgelati e gelatine rappresentano meglio di qualunque discorso l'immaginario di progresso tecnologico e benessere che gli Stati Uniti degli anni '50 intendono simboleggiare agli occhi del mondo.

La rivoluzione portata dall'arrivo alla Casa Bianca di Jackie Kennedy non è invece tecnologica, ma di gusto e soprattutto di ambizione geopolitica. La sua priorità è quella di dimostrare agli ospiti internazionali che gli Stati Uniti sono ormai diventati una potenza pari per eleganza agli altri grandi Paesi. Per farlo, però, non trova altro modo che affidare la cucina della Casa Bianca allo chef francese René Verdon, che sostituisce i rustici pasti del passato con elaborate ricette, ma inequivocabilmente francesi.

Si dovrà attendere la fine della Guerra Fredda, con il conseguente assurgere degli Stati Uniti a unica superpotenza mondiale, perché la presidenza sia rappresentata da menù al tempo stesso ricercati e orgogliosamente americani. Artefice di questa nuova svolta è Hillary Clinton.

Chi pensasse che la femminista Hillary si sia sottratta a questo ruolo di “cuoca della nazione” sbaglierebbe di grosso. Dopo essere finita nell'occhio del ciclone, durante la prima campagna presidenziale del marito, per aver rivendicato la sua scelta di fare carriera e non “restare a casa a fare biscotti”, Hillary capì ben presto che ciò che usciva dai fornelli della Casa Bianca non erano soltanto pasti, ma simboli e immaginari politici.

Accettò quindi di partecipare alla sfida di biscotti contro Barbara Bush, competizione nata proprio in risposta alla sua dichiarazione e che da allora si ripete a ogni elezione. Ma soprattutto, dopo l'insediamento, selezionò per la Casa Bianca lo chef Walter Scheib, con il quale portò avanti una campagna per il riconoscimento della diversità delle cucine regionali ed etniche degli Stati Uniti. Un messaggio che diceva, al tempo stesso, che gli Stati Uniti non avevano più bisogno di imitare nessuno, ma anche che la loro dimensione era intrinsecamente globale, sia per complessità interna (che li rendeva un microcosmo rappresentativo di ogni cultura), sia per i mutamenti del mondo che si avviava verso la globalizzazione.

Se Hillary Clinton avesse vinto la sfida con Donald Trump, forse questo excursus avrebbe assunto un significato diverso. A partire dal sessismo apparentemente insito nell'attribuire alle First Lady questo ruolo di "reggitrici" della cucina. Ma forse no. Come dimostra il fatto che la competizione presidenziale dei biscotti si sia tenuta anche quest'anno, nonostante Hillary fosse candidata alla presidenza. A sfidarsi, infatti, erano Melania Trump e Bill Clinton.

Lo stesso Donald Trump ha usato proprio il cibo per cercare di migliorare la propria reputazione tra i latinos, consumando un piatto di tacos davanti alle telecamere, in occasione delle celebrazioni del Cinco de Mayo. Più recentemente, una stroncatura della sua catena di ristoranti da parte del New York Times ha avuto strascichi politici inediti per gli Stati Uniti. Cosa aspettarsi dunque dall'insediamento della famiglia Trump nel rapporto tra cucina e potere?

Tra le mille contraddizioni che  Trump porta con sé alla presidenza, sarebbe stato interessante vedere come avrebbe reso “great again” anche la cucina americana, affidandola alla prima First Lady veramente straniera della storia (prima di lei, soltanto la moglie di John Quicy Adams – presidente tra il 1825 e il 1829 - era nata fuori dal territorio degli Stati Uniti, ma era comunque originaria dell'anglofona Londra e di padre americano). Ma a pochi giorni dall'insediamento sembra sempre più probabile che Melania Trump resterà a vivere a New York, mentre a occupare gli uffici che saranno lasciati vacanti da Michelle Obama sarà la figlia prediletta di Trump: Ivanka.

Continuerà con Ivanka e Donald Trump la secolare tradizione di rendere la cucina della Casa Bianca un elemento di azione geopolitica? Un dilemma certamente secondario, tra i tanti che affliggono l'attesa per la futura presidenza Trump, ma non di minore gusto.