Una parola d’ordine della mistica peronista che riprende un’invocazione profetica di Evita Perón all’indomani di una sconfitta, dice: «Torneremo e saremo milioni». I suoi seguaci l’hanno ripetuta per decenni, scandendo le loro giornate più cariche di tensioni e di lutti, imposti dalle speranze degli avversari e poi rapidamente svanite. Ieri, un istante dopo aver ricevuto dallo sconfitto Mauricio Macri l’ammissione della contundente vittoria sancita dalle urne, mentre decine di migliaia di suoi sostenitori già festeggiavano per le strade, il nuovo capo di Stato degli argentini, Alberto Fernández, ha detto semplicemente: «Siamo tornati e saremo migliori».

Questa parafrasi esprime tutto lo spirito indomito, ma anche il realismo e il sicuro olfatto politico che gli hanno permesso di riunire la tellurica galassia giustizialista e portarla nuovamente al governo, certamente favorito dall’innegabile bancarotta in cui è finito il quadriennio di un presidente che forse aveva promesso troppo, ma certamente ha sbagliato ancor di più. C’è la consapevolezza della drammatica crisi in cui è stato precipitato il Paese e della necessità di convocare tutte le sue energie politicamente disponibili ad affrontare gli sforzi necessari per rimetterlo in linea di galleggiamento.

Alludere nel momento del trionfo ai non pochi errori compiuti negli anni Novanta del secolo scorso e a quando egli stesso era premier del presidente Nestor Kirchner e poi della moglie Cristina, ora sua vice e socia essenziale nel patto elettorale e di governo, dopo un decennio di aperti dissidi, sembra confermare l’intenzione di procedere sotto il segno della mediazione anche e soprattutto nei confronti degli avversari, oltre che della massima riflessione e misura politica.

Che però non significa affatto né una ricerca di consenso ad ogni costo e men che meno una retorica interlocutoria per il tempo mancante fino al prossimo 10 dicembre, quando secondo la prassi costituzionale entrerà alla Casa Rosada per assumere i pieni poteri.

Lo stato delle cose non lascia spazio alla dilazione. Malgrado lo spericolato indebitamento, ormai complessivamente non lontano dal 100% del PIL, inflazione e svalutazione hanno frantumato il potere d’acquisto dei salari e asfissiato il mercato di consumo. Hanno chiuso 20.000 imprese, soprattutto quelle medio-piccole per le quali accedere al credito è divenuto via via impossibile. Soltanto negli ultimi 12 mesi l’attività industriale ha perduto l’8,1%. Per quella automobilistica che tiene in piedi l’economia di un paio di province tra le più popolate, è stata una catastrofe: meno 26,4% (negli ultimi 5 anni, da oltre 800.000 vetture è passata a produrne poco più di 320.000). La disoccupazione ufficiale sfiora l’11%, la povertà quasi il 27% dei 45 milioni di argentini.

Nell’immediato l’export agricolo è l’unica risorsa a cui il governo potrà fare ricorso, per provvedersi di valuta pregiata attraverso il prelievo fiscale. La fuga di capitali, divenuta tumultuosa negli ultimi mesi, lascia infatti riserve assai limitate nelle casse della banca centrale. Mentre dopo la siccità dello scorso anno, i prossimi raccolti si annunciano eccezionalmente abbondanti. Ma politicamente si tratta di un terreno minato. Nel 2008, proprio le ritenzioni alla produzione agricola provocarono scontri durissimi tra il governo dell’allora presidentessa Cristina Fernández de Kirchner da una parte e dall’altra gli allevatori di bestiame, i produttori di grano, mais e soia, che sostennero 129 giorni di sciopero e blocchi stradali.

Entrambe le parti mobilitarono l’intero Paese, che scese in strada a manifestare in favore dell’una o dell’altra. Il governo resistette alla furibonda prova di forza, che però ne marcò limiti e contraddizioni. Si disse, e a posteriori appare confermato, che fu l’inizio della fine. Il campo ‒ come comunemente in Argentina ci si riferisce ai produttori agricoli ‒ riuscì a isolare il governo dai suoi alleati in Parlamento, costringendolo a trincerarsi all’interno del perimetro dei suoi sostenitori più radicalizzati: si dimisero alcuni ministri, il vice di Cristina le votò contro (Alberto Fernández ne aveva già preso apertamente le distanze). Quelle giornate sono impresse a fuoco nella memoria di tutti gli argentini.

Insieme al governo centrale, il peronismo riconquista oggi quelli delle maggiori amministrazioni locali argentine, a cominciare dalla strategica provincia di Buenos Aires, che da sola produce metà della ricchezza nazionale. E probabilmente disporrà di una maggioranza in almeno una delle due assemblee legislative. Nondimeno, la cautela del nuovo presidente e la misurata loquacità della sua vice, Cristina Fernández de Kirchner, sembrano confermare la consapevolezza con cui affrontano la drammatica congiuntura. Saranno inevitabili provvedimenti restrittivi monetari e finanziari, sovvenzioni e sussidi straordinari, la contenzione della piazza. Innegabilmente, il populismo è un fattore storico del peronismo, leggerlo come sovranismo sudamericano sarebbe tuttavia una semplificazione inutile e dannosa per tutti.

Immagine: Alberto Fernández a Buenos Aires, Argentina (5 agosto 2019). Crediti: Federico Rotter / Shutterstock.com

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