La presidenza semestrale del Consiglio dell’Unione Europea è una di quelle tipiche vestigia ancestrali che le grandi organizzazioni faticano a cancellare. Nata quando la UE si componeva di meno membri e la complessità dell’architettura istituzionale era molto, molto minore, la tradizione di affidare la definizione dell’agenda a un Paese diverso ogni sei mesi sembrava un buon modo per concedere anche alle realtà più piccole un minuto al sole. Nell’Europa a ventotto, però, il meccanismo ha finito per trasformarsi in una delle tante linee di faglia che minano le fondamenta stesse del meccanismo decisionale continentale.

In questo senso la presidenza rumena, che si insedierà ufficialmente questa settimana con la presentazione del suo programma davanti al Parlamento europeo, rappresenta un perfetto caso di scuola. La Romania, passati gli anni del regime di Nicolaie Ceauşescu e una difficile democratizzazione, è entrata nella UE solo nel 2004 e fino ad appena un paio di anni fa non era ritenuta abbastanza affidabile nemmeno per far parte dell’area Schengen (ancora oggi, nonostante le proteste, il dipartimento di Stato americano rifiuta di estendere ai cittadini rumeni il VISA Waiver Program aperto a buona parte dell’Europa occidentale). La situazione politica interna al Paese è caotica: il Partito socialdemocratico ha vinto ‒ con ampio margine ‒ le elezioni, ma, quasi contemporaneamente, il suo leader Liviu Dragnea è stato accusato di una serie di reati molto gravi, tra turbativa d’asta, corruzione e, infine, di aver organizzato ‒ insieme ad alcune frange deviate di servizi segreti ‒ una schedatura di massa dei cittadini rumeni per frodare la campagna elettorale. La Corte di cassazione l’ha condannato a due anni di reclusione (con la sospensiva), ma Dragnea ha dichiarato di non riconoscere la sentenza e che, dunque, avrebbe continuato a fare politica.

A causa di questo leggero intoppo, però, il presidente della Repubblica Klaus Iohannis (componente della minoranza di lingua tedesca, di orientamento liberalconservatore) ha ritenuto di non offrire al leader socialdemocratico la possibilità di formare un governo e così, dopo mesi di stallo, si è arrivati a una serie di primi ministri deboli, tutti indicati dallo stesso Dragnea, e con pochissima autorevolezza politica. L’ultima in ordine di tempo è l’ex parlamentare del Partito socialista europeo (PSE) Viorica Dăncilă, pure lei ancorata a una maggioranza parlamentare piuttosto ballerina. Come se non bastasse, a poche settimane dall’inizio del semestre di presidenza, il ministro per gli Affari europei Victor Negrescu (un altro ex deputato europeo scelto proprio per via della sua esperienza a Strasburgo) ha ritenuto di rassegnare le dimissioni senza alcuna spiegazione; il suo posto è stato preso da un diplomatico di carriera il quale, però, rischia di rimanere schiacciato all’interno delle dinamiche politiche del Consiglio sia per la sua debolezza ‒ un tecnico non viene quasi mai preso in considerazione come una personalità di nomina politica ‒ sia per le turbolenze del governo.

In aggiunta a queste vicende, la Romania non ha mai risolto una serie di problemi atavici: la corruzione rimane endemica a tutti i livelli (sia la Commissione europea che l’OCSE, nei loro report, sottolineano come la trasparenza della pubblica amministrazione non sia assolutamente in linea con gli standard moderni), mentre il peso di alcuni apparati oscuri dello Stato rimane, seppur invisibile, molto rilevante. I servizi segreti ‒ mai davvero depurati dai rimasugli comunisti ‒ continuano a tenere sotto controllo un bel pezzo della popolazione senza che nessuno abbia un vero accesso ai dossier, mentre l’Autorità anticorruzione ‒ dopo un buon lavoro fatto attorno alla metà degli anni Duemila ‒ ha visto le dimissioni della sua presidente e, ad oggi, si occupa solo di casi minori, senza andare a colpire i vasti interessi di alcune cordate politiche e delle grandi dinastie industriali.

A fronte di questi problemi il Partito socialdemocratico sta provando ad attuare una politica che alcuni non esitano a definire sovranista, emulando le tendenze di alcuni altri Paesi dell’Est, come la Polonia e l’Ungheria: in Parlamento è in discussione una riforma della giustizia penale che, de facto, metterebbe i giudici sotto il controllo dell’esecutivo, mentre, appena qualche mese fa, si è tenuto un referendum (che il governo ha perso di misura) per definire la famiglia naturale come “unione tra uomo e donna”. Addirittura il logo scelto come simbolo del semestre di presidenza ‒ che sventolerà a Bruxelles ‒ ha fatto discutere: si tratta di un lupo stilizzato molto, troppo simile a quello usato da alcuni gruppi neonazisti e antisemiti che propugnano l’idea di uno Stato rumeno etnicamente puro e composto solo da “discendenti diretti” dei Daci (una antica popolazione indoeuropea danubiana sottomessa dall’imperatore Traiano di cui non ci rimane pressoché alcuna testimonianza scritta).

Insomma, la presidenza rumena, tra dissidi interni, problemi politici e leader quantomeno discutibili, rischia di far parlare di sé per le ragioni sbagliate, proprio in un momento in cui l’Unione Europea dove affrontare questioni come la fase finale della Brexit, il nuovo bilancio pluriennale e le elezioni di maggio 2019. L’Europa dei prossimi sei mesi ha bisogno di tutto tranne che di una guida confusa o poco autorevole (non lo diciamo noi, l’ha detto Jean-Claude Juncker in una conferenza stampa che ha creato scandalo a Bucarest), ma, forse, proprio il caso rumeno potrebbe portare a una revisione dell’ormai inattuale sistema della presidenza a rotazione, al fine di garantire che il Consiglio (che funge da camera di compensazione tra i governi espressi democraticamente e le burocrazie bruxellesi) funzioni nella maniera più efficace possibile. Ne guadagnerebbero tutti, pure i cittadini rumeni.

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