Il momento culmine della pandemia è giunto in America Latina dove si stimano circa un milione e quattrocentomila casi. Nei giorni scorsi l’OMS ha indicato il Sudamerica come nuovo epicentro dell’epidemia, con il Brasile in testa alla classifica.

Il Coronavirus è arrivato in un’America Latina scossa dalle proteste del 2019, in un contesto democratico fragile, con un trend in diminuzione da almeno quattro anni consecutivi, caratterizzato da una ricorrente instabilità politica e crisi della governance. Alla fine del primo decennio del XXI secolo la regione era avvolta da una visione ottimista sul futuro della democrazia, che registrava un miglioramento sia delle pratiche elettorali che della percezione della popolazione mostrando una cittadinanza sostanzialmente soddisfatta. A ben vedere sin da allora iniziava a crescere una schiera di indifferenti alla politica e al tipo di regime che abbandonavano anche l’appoggio alla democrazia (Latinobarometro 2018).

Non è un fatto così sorprendente se si pensa che la modernizzazione istituzionale, che da almeno una ventina d’anni interessa la regione, non ha saputo sanare la cronica sfiducia verso le istituzioni, al contempo causa ed affetto del mancato consolidamento democratico, né tantomeno la breccia permanente fra Stato e società. Le riforme politiche, elettorali e costituzionali emanate a un ritmo incalzante hanno perpetrato strutture organizzative di potere “affette” da vecchi vizi senza sradicare la tradizionale cultura politica con le sue inclinazioni populiste e autoritarie, con l’innata predisposizione a scavalcare la divisione dei poteri e l’assenza di uno Stato di diritto effettivo. Le nuove forme di autoritarismo apparse nella regione sono dunque anche figlie delle architetture istituzionali dell’era democratica e, ovviamente, della politica che le ha disegnate (T. Bertaccini, Il tortuoso cammino verso il consolidamento democratico, Forum Cespi L’America Latina: que pasa? www.Cespi.it).

Le mai superate sfide alla diseguaglianza, la crescente disaffezione alla politica e la cronica sfiducia verso le istituzioni sono esplose nelle proteste del 2019. La pandemia si è così presentata in uno scenario regionale instabile, esacerbando le brecce esistenti e insinuandosi nei vuoti delle culture democratiche latinoamericane. In primis, come ovunque, l’impatto sull’economia, che in America Latina colpisce nel periodo considerato di minor crescita degli ultimi sette decenni (2014-20), secondo i dati della CEPAL (Comisión Económica para América Latina), in Paesi già fortemente provati come l’Argentina, in aperta recessione, o in chiara stagnazione come il Messico. In America Latina la pandemia aggrava la relazione strutturalmente patologica fra crescita e sviluppo, nella regione che rimane la più diseguale al mondo e dove fin dal 2004 il rapporto PNUD (Programme des Nations Unies pour le Développement) indicava come la principale sfida delle democrazie il superamento delle diseguaglianze e della povertà. L’ulteriore contrazione della crescita dovuta alla pandemia, con una caduta del PIL attesa intorno al 5,3% (CEPAL) sopraggiunge in un contesto già segnato da indicatori preoccupanti in merito all’aumento della diseguaglianza e ai timidi avanzamenti dell’Indice de Desarrollo Humano (IDH; PNUD, Informe sobre el Desarrollo Humano 2019,www.hdr.undp.org.; La región ha subestimado la diesigualidad, 28 novembre 2019, www. Cepal.org). Così il Coronavirus si insinua nelle brecce mai superate, in una regione che detiene il primato nel divario fra i redditi, e nella dualità dell’economia formale/informale. Si calcola che l’economia sommersa della regione si aggiri fra il 30% e l’80% a seconda dei Paesi. Per i lavoratori dell’economia informale che lavorano nell’economia di sussistenza e vivono alla giornata, lo stare a casa e le misure di distanziamento significano perdere la capacità di sostentamento. Come ha commentato il vicario di Iquitos, capitale di Loreto una delle regioni più colpite del Perù: «Para la mayor cantidad de personas en Iquitos, la forma de vida es vender algo en la puerta de casa o hacer cachuelitos [pequeños trabajos ]¿Cómo le dicen a una familia de 12 personas en una casa de 10 metros cuadrados, bajo un techo de calamina, con el calor, que no salgan para evitar el contagio?» (El País, La informalidad y la fuga de los más vulnerables hacia el campo desbaratan el confinamiento en Perú, 8 maggio, www.elpais.com). E questo naturalmente non vale solo per il Perù, oggi uno dei Paesi più colpiti in America Latina, con circa 200.000 casi.

Il Covid-19 colpisce duramente i settori tradizionalmente deboli: salute, educazione e lavoro, proprio quel welfare oggetto di tante proteste sociali negli ultimi anni, con il rischio di accentuare una cittadinanza ancora più escludente. Secondo alcune stime dell’OCSE la previdenza e i programmi di assistenza coprono due terzi dei lavoratori e le loro famiglie (62%) e il 65% dei lavoratori informali non hanno nessuna protezione sociale; 125 milioni di persone non hanno accesso ai servizi di base per la salute, e più del 47% della popolazione non ha accesso alla previdenza sociale. Senza dimenticare che vi sono zone, prevalentemente rurali, dove manca perfino l’acqua. Sistemi sanitari a cui si sono destinate risorse insufficienti, e che durante la pandemia sono stati oggetto di malversazioni di fondi in Stati altamente corrotti.

Di fronte a questo delicato scenario, aggravato dalle misure spesso erratiche e contradditorie dei governi, seppur con le debite differenza fra i casi-Paese, si sono aperte crisi politico-istituzionali, si è accentuata l’instabilità politica, i governanti hanno usato la crisi per alterare il gioco democratico a loro favore, rafforzando il personalismo e scavalcando la divisione dei poteri, le notizie e i dati sono stati alterati o occultati, ledendo la libertà di informazione, mentre sono cresciuti il protagonismo militare, delle organizzazioni criminali e la corruzione.

Alcuni governi hanno negato o minimizzato la gravità della minaccia omettendo le raccomandazioni sanitarie di base. Il Brasile è fra i Paesi che hanno adottato una posizione più favorevole all’economia che alla salute dei propri cittadini. Le tensioni fra i poteri statali, che si erano già manifestate durante il primo anno del governo Bolsonaro, sono esplose dinnanzi alle divergenze su come affrontare l’emergenza. E le crepe nel governo hanno iniziato ad aprirsi. In primis colpendo proprio il delicato settore della salute. Il 16 di aprile Bolsonaro ha rimosso il ministro della Salute, favorevole alle misure di isolamento, per sostituirlo con un uomo più affine alle sue posizioni. Un mese dopo, il 15 maggio, anche il nuovo ministro si è dimesso per le divergenze sulle misure di quarantena e sull’uso di un farmaco antimalarico, ma anche per le costanti violazioni di Bolsonaro alle norme restrittive. Il presidente ha continuato imperturbabile a generare assembramenti fra i suoi seguaci senza cautele, diffondendo le fotografie sui social. Nella confusione regnante nella macchina statale, il ministro della Salute si è anche lamentato di non essere stato consultato in merito all’apertura delle attività economiche, decisione presa con il ministro dell’Economia Paulo Guedes, uomo molto importante nel governo per le sue posizioni iperliberiste. Tuttavia, lo stesso Guedes ha poi iniziato a perdere potere nel governo in quanto il piano di recupero economico è stato stilato con il ministro della Casa Civil, il generale Walter Souza Braga Netto. Insieme alle incertezze create nella popolazione, confusa sul seguire le indicazioni del presidente o del ministro di Salute, che nuoce alla fiducia nelle istituzioni, la crisi interna è andata aggravandosi di giorno in giorno.

Le tensioni politiche hanno attraversato il patto federale, scosso dai dissapori con i governatori che hanno deciso per conto proprio le misure di quarantena, non mancando scontri con il presidente che ha finito per perdere l’appoggio di alcuni esecutivi statali. Bolsonaro non ha avuto scrupoli nell’esacerbare un patologico difetto del sistema politico democratico: la difficile relazione fra l’Esecutivo e un Congresso altamente frammentato al suo interno, causa di problemi nella governance, accusando il presidente della Camera di ostacolarlo e di tramare un piano per destituirlo fomentando così una narrativa cospirazionista con l’invenzione di nemici inesistenti, utile probabilmente a mantenere la coesione nello zoccolo duro della sua base elettorale (El País, 20 aprile, www.elpaís.com).

Il presidente si è più volte unito a manifestazioni di protesta progolpiste che hanno inneggiato a un intervento dei militari, rilasciando dichiarazioni ambigue come «non vogliamo negoziare niente», e appoggiando i suoi sostenitori, quella parte di settori sociali che di fronte all’insicurezza generata dall’emergenza manifestano inclinazioni di tipo autoritario, aumentando così la polarizzazione sociale. Il conflitto fra poteri si è ulteriormente aggravato a causa della partecipazione del presidente in manifestazioni pubbliche che si sono espresse contro il Tribunale supremo federale e il Congresso, un comportamento che è stato condannato anche da molti governatori in quanto lesivo dell’art. 85 della Costituzione che regola i delitti di responsabilità del presidente, fra gli altri quello del libero esercizio dei poteri legislativo, giudiziario e delle unità della federazione.

Il caso brasiliano palesa anche un altro spettro ricorrente per le democrazie latinoamericane: la corruzione, un aspetto strutturale e connaturato della regione, che in questi ultimi vent’anni ha minato un po’ ovunque la stabilità politica. La pandemia in alcuni casi ha anche agevolato la diffusione di pratiche corruttive legate all’emergenza sanitaria. Gli attacchi contro il Tribunale supremo del Brasile sono relazionati a scomode indagini. In un Paese dove da alcuni anni la magistratura ha raggiunto un alto grado di autonomia e d’indipendenza, ma dove le ombre del protagonismo del potere giudiziario nel juicio politico contro Dilma Rousseff non sono del tutto dissipate. Il fronte giudiziario della crisi politico-istituzionale è esploso con le dimissioni del super ministro della Giustizia Sergio Moro (personaggio celebre per l’operazione Lava Jato e l’incarcerazione del ex presidente Lula) avvenuta in seguito alla destituzione del direttore generale della Polizia federale Maurício Valeixo, suo collaboratore di fiducia, e “colpevole” di aver aperto un’indagine sul figlio del presidente, il senatore Flavio Bolsonaro, sospettato di malversazione di fondi pubblici. La presenza del giudice Moro nel governo era servita per rafforzare la credibilità nella promessa elettorale di Bolsonaro di combattere la corruzione e il crimine organizzato. Il potere reale del super ministro, a cui era stata assicurata mano libera, era minacciato da tempo, non solo dai veti posti alle sue proposte nel pacchetto anticrimine approvato nel dicembre 2019, ma anche dalla minaccia di separare il ministero della Giustizia da quello di Sicurezza, limitando così le facoltà di Moro. Molteplici richieste di impeachment sono state depositate nel Congresso e il Tribunal supremo federal ha autorizzato l’avvio di indagini contro elementi chiave del gruppo bolsonarista per un’inchiesta collegata alla diffusione di fake news contro autorità pubbliche, nella quale sarebbero anche coinvolti i due figli del presidente, Carlos ed Eduardo.

Mentre la crisi politica si approfondisce di giorno in giorno a colpi di dure accuse fra i poteri statali, corrodendo la debole fiducia nelle istituzioni, minando la divisione dei poteri, aumentando la polarizzazione sociale e debilitando in toto il consolidamento democratico, il Coronavirus continua indisturbato il proprio cammino superando i 700.000 casi, posizionando il Brasile al secondo posto della triste classifica mondiale, dopo gli Stati Uniti.

Immagine: Dichiarazione di Jair Bolsonaro, Brasilia, Brasile (24 aprile 2020). Crediti: Foto: Alan Santos/PR. Palácio do Planalto [Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)], attraverso www.flickr.com

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